UN FILM CHE RACCONTA DI PSICOANALISI E DI CINEMA INCESPICANDO NELL’IRONIA FRANCESE 

Regia di N. Bedos (2019) con Daniel Auteuil, Fanny Ardant e Doria Tiller

Nella borghesia francese Victor è un disegnatore di successo sulla sessantina, si addormenta alle cene quando sono troppo noiose, è geloso delle attenzioni che la moglie riserva al figlio, vive un rapporto conflittuale con la moglie e la tecnologia, da entrambe ne esce sopraffatto.

“Ti licenzio, tutti ti licenziano, sei l’archetipo del licenziato”

Al contrario della moglie, accetta la vecchiaia come tappa ineludibile della vita, ma rifiuta il nuovo mondo digitale e incontrollabile che combatte pigramente con sarcasmo e cinismo.

Vuole vivere quella pazza”. 

Dopo essere stato cacciato di casa, per risolvere il suo sfollamento e la sua incolmabile nostalgia si rivolge a un’agenzia che ricostruisce su commissione scene del passato nelle quali ospita i propri clienti. Avviene in concreto ciò che in psicoanalisi avviene in astratto. 

Antonie, l’ossessivo e perfezionista direttore dell’agenzia, e Victor, come in una seduta di psicoanalisi, fanno il casting dei personaggi, selezionano i luoghi, gli odori e i sapori da far abitare al campo psicoanalitico. 

D’altronde nell’analisi come la intende Antonio Ferro, il racconto che il paziente costruisce insieme all’analista, non è altro che una trasformazione in sogno, ed è proprio questa trasformazione che avviene nel film. 

Victor torna indietro nel tempo, negli anni ’70, gli anni della sua giovinezza, nel giorno in cui in un bistrot conobbe sua moglie. La regressione agli anni ’70 gli permette di rivivere i piaceri della sua giovinezza e di quel grande amore uniti al piacere della consapevolezza di star fuggendo dalle angosce del presente. 

Ho l’impressione che la vita fosse più semplice. C’erano i ricchi, i poveri, la destra, la sinistra, difendevamo gli immigrati senza preoccuparci dell’economia, i religiosi erano meno fanatici della religione, la gente si parlava a tavola senza guardare i telefoni e poi io ero più giovane ecco”.

La belle époque ci ricorda che la nostalgia non è alimentata tanto dai ricordi di un passato grandioso, ma da piccoli dettagli tattili come il sapore delle sigarette fuori mercato, le monetine che cadono nel jukebox, un profumo al bergamotto passato di moda. 

La patologia si fortificherebbe se rivivesse il passato tale e quale, ma grazie alle improvvisazioni dell’attrice che interpreta sua moglie trova nuovi significati che conferiscono una nuova vita ai suoi ricordi. Infine, rivivere quella scena con sua moglie, in una sorta di terapia di coppia, gli permetterà di riappropriarsi del presente restituendo al passato la sua complessità in cui, proprio come in ogni luogo e in ogni tempo, gioie e dolori convivono. 

Personalmente non mi mancano quei giorni, non eravamo poi così liberi. Gli stupratori restavano impuniti, abortire era complicatissimo, e poi mi sembrava di vivere in un enorme posacenere”.

Daniel Auteuil interpreta Victor con una spaesata dolcezza e sorride con malinconia alle piccole imprecisioni della messa in scena del suo passato. Non si lascia mai sovrastare dall’emozione, ma la conserva per donarla integra allo spettatore.

La belle époque parla di psicoanalisi, nella misura in cui il protagonista rivive il suo passato e ne esce bonificato, pronto per vivere il presente. O forse parla di cinema, nella misura in cui lo spettatore per quell’ora e mezza prende in prestito la vita di un altro e ne esce con qualche strumento in più per affrontare la vita una volta riaccese le luci in sala.