La famiglia (1987). Regia: Ettore Scola. Interpreti principali: Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli, Fanny Ardant, Sergio Castellitto, Giuseppe Cederna, Athina Cenci, Jo Champa, Massimo Dapporto, Silvana De Santis, Hania Kochansky, Alberto Gimignani, Dagmar Lassander, Andrea Occhipinti, Renzo Palmer, Alessandra Panelli, Memè Perlini, Ottavia Piccolo, Monica Scattini, Barbara Scoppa, Ricky Tognazzi, Massimo Venturiello, Carlo Dapporto, Philippe Noiret, Cecilia Dazzi
Mettere in scena, in poco più di due ore, tutta una vita, dai primi vagiti agli acciacchi degli 80 anni, è impresa davvero complicata. Si rischia l’agiografia o, in alternativa, lo scivolone verso fiction nazionalpopolari, quelle che alternano la celebrazione delle prodezze del protagonista accostandogli, a mo’ di stadera perequativa, amori illegittimi o altre fragilità a temperarne la grandezza. Ettore Scola sceglie di parlare allo spettatore in forma dubitativa, raccontando l’intera esistenza di un uomo, dal 1906 al 1986, attraverso la lente focale dell’appartamento in cui è nato e dove ha abitato tutta la vita.
Il battesimo di Carlo viene ritratto da un fotografo professionista con tanto di flash al magnesio, con tutta la famiglia riunita attorno a un altro Carlo, patriarca e nonno del protagonista.
E’ l’occasione per presentare la famiglia, all’epoca allargata non dai diritti civili ma dalla convivenza di tutti coloro (zie, nipoti, cugini, affini vari e l’immancabile fantesca) che abitavano le stesse stanze, condividendo i pasti, i lutti, gli ospiti e le aspettative. Non esisteva privatezza, ragione ed emozioni erano condivise in un assetto comunitario in cui ciascuno portava, a seconda del proprio ruolo, un silenzio sommesso o un intervento educativo. Nove carrellate lungo il corridoio scandiscono i nove episodi in cui è diviso il film, lasciando fuori dalle mura di casa i comizi di regime, l’antifascismo, la borsa nera, il dopoguerra, il lavoro, le lotte studentesche, gli anni di piombo. Tutto entra attraverso le parole, le descrizioni che ne fanno i protagonisti.
Ma l’amore no, l’amore si accende lungo le diverse età della vita direttamente dentro le mura di casa. L’amore di un padre verso i figli, con il terribile lascito sul letto di morte (“Stai attento a tuo fratello, lui è debole”), o quello verso una donna desiderata e mai veramente incontrata.

La costruzione di un amore, è questo che colpisce davvero del film. Un amore tra fratelli, con la consapevolezza in ciascuno dei due di occupare un ruolo che qualcun altro ha scritto per lui. Perché c’è quello adulto, retto, serio, magari un po’ pedante, affidabile, che non si lascia andare a colpi di testa, ligio a dovere e prescrizioni. E quello scapestrato, inaffidabile, e proprio per questo pronto a confermare la visione che gli altri hanno di lui, attraverso scelte strampalate ed esiti spesso fallimentari. Ma anche l’amore che non muore, quello assoluto sfiorato in gioventù e mai vissuto veramente per l’impossibilità di stare vicini. Per dedicarsi alla propria carriera, per non ferire una sorella, per non deludere chi era già vicino senza chiedere nulla se non essere amata. Costruzioni, appunto, mattoni esistenziali assemblati uno dopo l’altro e cementati tra loro dalla malta dell’abitudine. Fino a quando tardi, troppo tardi, si scopre che le cose avrebbero potuto andare anche diversamente, che il fratello sfortunato, attraverso il diario del suo fallimento, aveva evidenziato un grande talento da coltivare, senza che nessuno glielo riconoscesse. Ma il tempo è passato, le occasioni sono state perdute, ed è rimasta una quieta abitudine, fino a quando le grandi stanze si svuotano, e il protagonista resta solo a viverle, rinfrancato raramente dalla presenza di un nipote che va e viene.

Il cinema di Scola scava dentro l’animo umano: ma non nelle sue patologie, piuttosto nelle declinazioni della sua ordinarietà (niente tradimenti, né amicizie interrotte, agnizioni o riscatti sociali), senza le montagne russe di cambiamenti ottenuti per frattura o contrapposizione. Un cinema che lascia dentro qualcosa perché non ti ha preso per le spalle scuotendoti, ma ti ha accompagnato per mano, dandoti il tempo di guardare la tua vita, quella dei protagonisti, di nuovo la tua, in un transfert quieto e sereno, ma non per questo meno profondo.
Vite normali, scandite da piccole scelte che giorno dopo giorno ne formano il percorso, senza che nessuno se ne renda veramente conto. Per abitudine, pavidità, pigrizia, per una tavola apparecchiata da altri e che troviamo comodo lasciare così com’è, perché un motivo ci sarà pure, e quindi perché preoccuparsi?
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