La Fontana Della Vergine (Titolo originale Jungfrukällan, Svezia, 1960). Regia: Ingmar Bergman. Interpreti principali: Max Von Sydow, Birgitta Pettersson, Gunnel Lindblom, Birgitta Valberg, Axel Düberg.
[Questo film è presente nella lista, sempre curata da Mauro Martinelli, dedicata all’elaborazione del lutto, che potete trovare a questo link: https://www.cinemaepsicologia.it/lista-tematica-di-cinema-e-psicologia-dedicata-allelaborazione-del-lutto/]
Tra i massimi registi del Novecento, maestro nel descrivere i dilemmi interiori dell’uomo attraverso un mirabile equilibrio drammaturgico di corpo e spirito, Bergman ha attraversato con la sua ampia filmografia le varie modalità con cui l’uomo ha tentato di dare una risposta alle grandi domande dell’esistenza.
Ispirato a una ballata svedese medievale, il film racconta la tragedia di una famiglia che si consuma nel breve volgere di due giorni. Töre è il padrone di una tenuta dove lavorano alcuni contadini e la serva Ingeri, una giovane pagana in attesa di un figlio come conseguenza di uno stupro. La moglie Märeta è una donna pia che mortifica il suo corpo nella convinzione che questo sia il volere del Signore mentre la figlia adolescente Karin, unico essere umano in cui la leggerezza alberga come una veste leggera, deve portare dei ceri per una festa religiosa presso la chiesa che si trova dall’altra parte del bosco perché così vuole la tradizione.
Durante il viaggio è accompagnata da Ingeri, che però si attarda e raggiunge la sua padrona solo quando alcuni pastori, dopo averla violentata, la uccidono con una bastonata. Nascosta nel bosco, non trova il coraggio di intervenire. I pastori, in fuga dal proprio delitto, chiederanno ospitalità proprio a Töre, che grazie alla moglie non tarderà a scoprire il delitto e a compiere la sua vendetta.

Figlio di un pastore luterano, Bergman riproduce in gran parte della sua filmografia i dubbi generati da una fede vissuta come assoluto. Nel film la vicenda è scarnificata da ogni orpello e viaggia lungo il binario di un rigoroso espressionismo visivo e drammaturgico: il contrappasso tra Ingeri (che invoca Odino perché anche Karin soffra come ha sofferto lei) e la figlia del padrone è netto, parallelo a quello tra paganesimo e cristianesimo. L’unica figlia, dono del cielo e simbolo d’amore, viene uccisa nel fiore degli anni e proprio mentre si accingeva a rispettare un rito mariano: dov’era Dio in quel momento? Perché ha consentito che un destino così atroce si compisse?
Il peccato e la sua espiazione sono la traccia che l’uomo medievale deve seguire. Ma è possibile il perdono o solo la vendetta può offrire una risposta alla violenza?
Mentre prima dell’alba Töre attende il risveglio dei pastori per affrontarli, abbatte con il suo corpo una betulla, fino a sradicarla ed utilizzare i suoi rami per frustarsi la schiena.

Riti pagani e simbolismi cristiani si sovrappongono e riassumono nella persona che ha perso il bene più prezioso. Max Von Sydow incarna una figura ieratica che non vacilla nemmeno un attimo nel compiere la sua vendetta, ma che chiederà a Dio perché gli ha permesso di compiere nuovi omicidi, compreso quello del più piccolo dei pastori, un ragazzino innocente che aveva tentato di dare un accenno di sepoltura al corpo di Karin:
“Tu vedi la morte di un’innocente, vedi la mia vendetta e non l’hai impedito. Io non ti capisco”. Il senso di colpa, che colora di toni cupi molti credo religiosi, appare nelle autoaccuse di Ingeri (che aveva pregato Odino), e di Märeta (che non aveva pregato abbastanza Dio).
Colpa come peccato originale che gli esseri umani devono scontare per guadagnare un posto nel regno dei cieli, oppure come delega in bianco a un dio malvagio, ma sempre chiave per chiudere la porta al libero arbitrio. Töre, che pure sfonda quella porta, si chiederà non tanto perché ha ucciso tre persone, ma come mai Dio lo abbia permesso. Il segno divino sorgerà dalla terra come invito a perseverare nella fede, indicando all’uomo l’amore come unica risposta possibile.
Il talento del direttore della fotografia Sven Nykvist, che ha lavorato con Bergman in venti film e che avrebbe poi collaborato con registi del calibro di Polanski, Malle, Tarkovskij, John Houston e Woody Allen, è quello di rendere con semplicità e rigore naturalistico ambienti poveri in cui pochi oggetti (una ciotola, una spada, la veste di Märeta, la pietra che rotola dalle mani di Ingeri) sono in grado di restituire il senso di un’epoca. Quello del regista invece la capacità di trasferire su una storia semplice le domande a cui l’uomo, dalla notte dei tempi, prova a dare una risposta.
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