Regia di Kantemir Bagalov
Provare a parlare di questo film, ambientato della Leningrado del 1945, significa trasferire su un piano verbale un’esperienza che coinvolge i sensi, li confonde, e crea le premesse per vivere delle percezioni di autentica immersione dentro un mondo ferito dalla guerra.
E sì, perché in questo film non si racconta la storia, ma la si vive e la si patisce insieme ai protagonisti. È una vera esperienza di coinvolgimento totale che il giovanissimo regista rende possibile ed esaspera attraverso colori saturi che passano dell’ocra al verde al rosso; in questo modo egli sperimenta una tavolozza che intride gli ambienti e gli abiti esaltando il colore pallido e diafano delle protagoniste.
Lya anche detta Giraffa per l’altezza davvero eccezionale che le offre un punto di vista diverso e straniato, si aggira in una Leningrado poverissima, fatiscente e decadente, eppure attraversata da un fremito febbrile e quasi dionisiaco di ripresa. Ma la Giraffa non sembra essere di questo mondo, infatti l’altezza, i colori chiarissimi e una forma di epilessia post-traumatica la rendono una creatura del sottosuolo, un’eroina mite e selvaggia, al contempo, dispensatrice di vita e anche di morte.
L’epilessia la coglie immobilizzandola in una trance che, tuttavia, tutti accettano come una manifestazione naturale e che presumibilmente è il lascito di un trauma di guerra sconosciuto. Lei lavora in ospedale dove si prende cura di un’umanità devastata dalla guerra; eppure, anch’essa proiettata verso la vita. Insieme all’allampanato dottore somministrano medicine come possono anche ai casi più disperati.
La ragazza accudisce poi un bambino, forse suo figlio, un esserino di due anni di nome Paska. Sguardo di disarmante innocenza, smuove nel profondo tutto quello che negli esseri umani si agita in termini di protezione. Ma è un bambino segnato dalla sorte. Al sopraggiungere di Masha dal fronte si comprende che gli equilibri si alterano. Quanto la prima è algida, tanto la seconda è viva e brillante, e, pur avendo subito anche lei ogni genere di avversità, le controbilancia con un atteggiamento volitivo e aggressivo.
Ognuna delle due, attraverso percorsi diversi ma complementari, agisce mossa da un’unica motivazione: lasciarsi alle spalle tutto e vivere, anche attraverso una complessa vicenda di maternità prestate. In questo modo vita e morte e destino si saldano in un unico abbraccio, che spiazza e turba lo spettatore proiettandolo in un mondo che la guerra ha privato delle coordinate essenziali. La morale è sparita, i corpi smagriti e smunti rappresentano in modo tangibile la deprivazione del calore umano a cui sono stati esposti. Restano solo gli istinti, la fame, la riproduzione come scommessa sul futuro, il desiderio di calore umano e fisicità che va al di là della definizione di genere.
E così si comprende anche la funzione narrativa di Paska, il bambino del domani, un puer su cui proiettare la smania di vivere.
Opera immensa di un regista neanche trentenne sfiora temi complessi come la diversità e l’omosessualità seguendo un linguaggio ricco di un’espressività delle luci e dei corpi che risulta intraducibile in qualsiasi alta forma.
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