Vittorio Gallese, uno dei ricercatori che ha fatto parte dei primi gruppi di ricerca sui neuroni specchio, insieme a Michele Guerra, un teorico del cinema, ha avanzato una proposta teorica in relazione alla visione di un film chiamata simulazione incarnata.
Questo post è tratto dal libro: Sergio Stagnitta (2020) Come in uno specchio. Un viaggio tra cinema e psicologia. Edizioni Ultra, Roma.
Parto dalla definizione che ne danno gli autori:
La simulazione incarnata (embodied simulation) è un meccanismo funzionale di base del nostro cervello grazie al quale riusiamo parte delle risorse neurali che normalmente utilizziamo per interagire col mondo, modellando i rapporti e le relazioni che con esso stabiliamo. […] Comprendiamo il senso di molti dei nostri comportamenti e delle esperienze altrui grazie al riuso degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le nostre esperienze agentive, emozionali e sensoriali in prima persona. Riutilizziamo i nostri stati o processi mentali, rappresentati in un formato corporeo per attribuirli funzionalmente agli altri. […] L’uso di questo modello come chiave di lettura e interpretazione della ricezione del film de- riva dalla convinzione, ampiamente condivisa, che il nostro approccio alla vita reale così come al film si fondi su meccanismi percettivi e sottostanti meccanismi neurofisiologici in gran parte simili.
Questa teoria avvalora la tesi che il film ci consente di entrare in contatto con schemi profondi, di cui noi stessi molto spesso non siamo a conoscenza, riorganizzandoli in un processo di relazione e scambio nuovo rispetto a quello che stiamo vedendo; in parole ancora più semplici, vuol dire che quelle immagini rimodellano l’immagine che abbia- mo di noi stessi, riorganizzando le tracce (l’engramma) iscritte nella nostra memoria.
Provo a fare un esempio concreto: pensate a un ragazzo che a scuola si comporta in modo arrogante e violento verso i suoi compagni di scuola, bullizzandoli. Questo ragazzo ha certamente dentro di sé schemi relazionali disfunzionali e molto probabilmente è stato lui stesso vittima di violenza od oppressione da parte di un genitore, oppure ha vissuto situazioni particolarmente difficili nelle quali non aveva nessun modo per reagire. Ha vissuto sentimenti di impotenza e inadeguatezza che lo hanno spinto a riattualizzarli, come forma di adattamento, quando da grande li ha potuti riversare verso i compagni più deboli e indifesi. Ha dovuto cioè rimuovere le sue ferite identificandosi con l’aggressore piuttosto che con la sua parte vittima.
Se questo ragazzo ha la possibilità di vedere delle scene che rappresentano questi schemi relazionali, può entrare in contatto con la sua parte ferita in una dimensione che coinvolge anche il corpo, in un processo circolare nel quale può vedersi, contemporaneamente, vittima e carnefice, violento e impotente, attivo e passivo. Può cioè recuperare quella parte di ricordi che ha dovuto bloccare per non soffrire tanto. Quell’esperienza si trasforma in uno schema relazionale, intercorporeo, come direbbero Gallese e Guerra, che arriva a un livello più profondo del solo linguaggio o della sola spiegazione razionale del suo comportamento, o meglio ne costituisce la base relazionale. Questo non vuol dire che siamo in grado di comprendere pienamente l’altro con i suoi vissuti, sensazioni, fantasie e pensieri, ma che quello che osserviamo non è “alieno” da noi.
Ovvero, il ragazzo può avere un’esperienza corporea diretta, e nello stesso tempo mediata dallo schermo, di ciò che accade dentro di lui e agli altri quando si trasforma in un bullo. In una seconda fase potrebbe essere utile discutere in gruppo di ciò che ha visto e provato, portando quei vissuti a un livello più consapevole. Ma se prima non ha avuto la possibilità di entrare in contatto fisico ed emotivo con la sua storia e quella degli altri il lavoro può risultare piuttosto limitato, spesso anche inadeguato.
È come dire a una persona che sta vivendo un attacco di panico “adesso calmati, perché in questo momento sei al sicuro, non sta succedendo nulla di grave”: in genere la persona risponde che lo sa bene cosa dovrebbe fare, il problema è che non riesce a farlo! Prima ha bisogno di provare fisicamente ed emotivamente il senso di sicurezza sciogliendo quei meccanismi alla base delle sue profonde e antiche angosce.
Ecco perché Gallese e Guerra arrivano a definire il concetto di “simulazione liberata” in relazione al cinema:
Più che una sospensione d’incredulità l’esperienza estetica suscitata dalla visione di un film può essere letta come una “simulazione liberata”, cioè come il prodotto di un potenziamento dei meccanismi di rispecchiamento e simulazione. […] Siamo liberi di amare, odiare, provare terrore, piacere, facendolo da una distanza di sicurezza. Molti hanno sottolineato il vantaggio adattivo che deriverebbe dalla possibilità di vivere e simulare mimeticamente in modo virtuale le vicende umane, attraverso la finzione narrativa o partecipando al rito delle tragedie. È questa distanza di sicurezza tra noi e la scena, tra noi e lo schermo, che ci dà piacere, rendendo la mimesi catartica, mettendo in gioco in modo più totalizzante la nostra naturale apertura mimetica al mondo.
Questo è un processo fondamentale, ma, come ho affermato nel secondo capitolo, non è il nostro obiettivo finale, serve per entrare in contatto con quelle parti di noi più oscure, inconsce, riconoscendole e potendole quindi integrare con gli aspetti più evoluti. Ma tutto questo ha una direzione precisa: entrare in contatto con il nostro desiderio. Per quel ragazzo bullo, il suo desiderio non è, come crede, quello di riconoscersi forte sottomettendo gli altri. Nella sua crescita è stato costretto a identificarsi con un’immagine vincente, dominante, si è dovuto plasmare sull’immagine dell’altro.
Il suo desiderio, di cui lui stesso sa ben poco, è viceversa quello di essere visto e amato proprio per quelle ferite che ha dovuto nascondere per non sentirsi più così fragile e indifeso. La violenza non è generata da una dimensione aggressiva sottostante, ma da una profonda confusione interna, una conflittualità che non riesce a trovare una direzione. Questo è vero sia a livello individuale che collettivo. Quando questa confusione arriva a un livello insostenibile, l’unico modo per risolvere la faccenda è trovare un nemico, un capro espiatorio che condensi tutte le nostre paure. L’ebreo nel nazismo così come il ragazzo indifeso per il bullo.
Sono sempre più convinto che il cinema ha dentro di sé proprio questa grande potenzialità. Entrare in quelle “maglie” strette, difese, protette dall’Io, e riportare a galla ciò che non volevamo e potevamo vedere.
La teoria della simulazione incarnata ci aiuta a comprendere che il processo si attiva “dal basso”, partendo proprio dal corpo, dalle emozioni, spingendo verso l’alto qualcosa che è rimasto sotterrato dentro di noi, bloccato dalla schiavitù della ripetizione, grazie e soprattutto alle relazioni che instauriamo con l’altro, sia egli reale o immaginario, come il personaggio di un film.
Schema simulazione incarnata-liberata
Ma questo processo ha bisogno di un ulteriore salto: quello dell’essere riconosciuti dall’altro, non tanto ripristinando le aspettative sociali, quanto nell’accettare ciò che vive profondamente, in modo da poter ristrutturare dentro di sé uno schema, una sorta di modello interno, più chiaro e integrato.
Ma questa verità non è di dominio dell’Io, bensì dell’inconscio. Per questo motivo Lacan parlava di “soggetto dell’inconscio” riprendendo un’espressione del poeta francese Arthur Rimbaud (1871), una frase a prima vista abbastanza incomprensibile e grammaticalmente scorretta: «Je est un autre» (Io è un altro), intendendo che l’Io è del tutto impotente di fronte al pensiero, è un flusso che esce spontaneo dalle profondità: i pensieri stessi sono improvvise emergenze di un fiume carsico che scorre senza essere visto, esattamente quello che accade a tutti noi spettatori quando guardiamo un film.
La prossima volta che andate al cinema sono sicuro che non direte più: «È solo un film!».
Le citazioni sono tratte dal libro: Gallese Vittorio, Guerra Michele (2015). Lo schermo empatico. Raffaello Cortina Editore, Milano.