La Tana (Italia, 2021). Regia: Beatrice Baldacci. Interpreti principali: Irene Vetere, Lorenzo Aloi, Hélène Nardini, Elisa Di Eusanio
In una campagna imprecisata, durante un’estate di sole e cicale, Giulio e Lia si incontrano in un luogo slegato dal mondo. Li accomunano due abitazioni confinanti, un lago, e la natura nel tempo del suo pieno rigoglio. Giulio ha deciso di passare l’estate con i genitori per aiutarli nei lavori dell’orto, Lia appare come d’incanto da una casa che pareva abbandonata da anni.

Lui è il classico bravo ragazzo, lei scontrosa e introversa, si muove a scatti tra slanci e ritirate. Questo atteggiamento nasconde un mistero che Giulio non tarderà a scoprire: Lia ha una madre affetta da una malattia neurodegenerativa. I due ragazzi impareranno ad ascoltarsi, e Lia a cercare in Giulio quel punto di riferimento che sembra svanire giorno dopo giorno.

Opera prima di Beatrice Baldacci, classe 1993, con due protagonisti giovanissimi, il film appare un’occasione sprecata. Il soggetto mette sul piatto diversi argomenti e infiniti possibili sviluppi (la stagione degli amori, il racconto di formazione, la malattia come contrappunto all’esplosione dei sensi; il peso della cura, il timore della perdita, l’incapacità di essere d’aiuto) ma lo svolgimento risente di istrionismi fuori contesto, di dialoghi privi di spessore e di giochi di ruolo poco inseriti nella struttura drammaturgica.
Il formato 4:3 potrebbe essere un modo per evidenziare la chiusura di questa storia al resto del mondo, che in effetti scompare in ogni suo aspetto perché non sappiamo nulla di ciò che accade al di là del bosco, per concentrare lo sguardo sulla tana, che poi è il non-luogo dove si svolge la vicenda. Non sappiamo se la tana è lo spazio nero che conduce in un mondo senza scampo o piuttosto il nido sicuro in grado di proteggere dalle intemperie della vita. In questa incertezza strutturale le scene procedono a scatti, senza un fluire che accompagni il crescendo drammaturgico, e i dialoghi non brillano né per originalità né per tensione. Il mistero si svela in un modo banale, l’epilogo viene anticipato a metà film, e ciò che resta è un insieme di buone intenzioni che lotta -perdendo- con il desiderio di rappresentare in profondità un vissuto di grande sofferenza.
Forse la regia ha inteso mettere nella pellicola troppi spunti, forse aveva da raccontare mozioni che non è riuscita a tradurre in metafore o momenti poetici. I corpi dei ragazzi sono involucri che si incontrano, i loro pensieri parole che si incrociano, le loro intenzioni strade tracciate che verranno percorse individualmente.
Il nome Lia deriva dall’ebraico e significa stanca, affaticata. Forse gli spazi che Lia si regala con Giulio, fuggendo per poche ore al gravame della cura e al peso della sofferenza, sono ciò che le permette di elaborare un suo mondo di sogni e immagini, con colori caldi e sfumati. O forse sono una fuga dalla realtà e un bisogno di rispecchiarsi in occhi giovani e sani. Occhi che la madre ormai lascia galleggiare in un mare senza colore.
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