LA TIGRE BIANCA (titolo originale The White Tiger, USA e India, 2021). Regia: Ramin Bahrani. Interpreti principali: Adarsh Gourav, Rajkummar Rao, Priyanka Chopra, Mahesh Manjrekar, Swaroop Sampat.
Prodotto da Netlix e uscito sulla piattaforma il 22 gennaio 2021, candidato agli Oscar per la categoria “Migliore sceneggiatura non originale”, nel primo mese di programmazione online ha collezionato già 27 milioni di visioni. Una storia indiana, incentrata su miseria e riscatto, il sistema delle caste e un affresco di quella che si autodefinisce “la più grande democrazia del mondo”. Niente che a prima vista sembrasse ispirato all’entertainment occidentale (The millionaire di Danny Boyle) o avesse bisogno di un contrappunto americano per sottolinearne l’alterità culturale (Monsoon Wedding di Mira Nair o My name is Khan di Karan Johar).
Apparentemente le premesse per inserire questo titolo all’interno della rubrica “Another time, another space” sembravano esserci tutte: un mondo diverso e lontano, una cultura da avvicinare con rispetto per provare a comprenderne le varie stratificazioni, un sistema economico in turbo-crescita ma all’interno di una cultura millenaria distante anni luce dal protestantesimo, un assestamento complicato che deve contemperare convivenza pacifica e prospettiva di futuro in un Paese che ha meno di 80 anni e dove convivono lingue, culture, tradizioni, religioni differenti, sparse su un territorio grande quanto l’Europa dove vive un sesto della popolazione mondiale.
Il film si apre su un antefatto che, in un gioco di play-back, svelerà verso la fine l’impatto che ha avuto sulla vicenda. La storia, ispirata da un romanzo scritto nel 2008 da Aravind Adiga e vincitore del Booker Prize, segue la parabola di Banran Halwai, che ci viene presentato come un boss di Bangalore che scrive una lettera al primo ministro cinese, in visita nel paese indiano nel 2010 per stringere nuovi accordi commerciali. In questa missiva, che attraversa il film con la voce fuoricampo del protagonista, Banran racconta la propria parabola: da figlio poverissimo di un guidatore di risciò, destinato come il padre a una vita di miseria e sottomissione, al suo approdo come autista al servizio di Cicogna, criminale capace di taglieggiare senza pietà il suo piccolo villaggio, e del figlio Ashok, di ritorno dagli Stati Uniti dove ha sposato una donna indiana, per prendere le redini dell’impero criminale della famiglia ed allargarlo sulla base delle sue nuove competenze occidentali.

La confezione ha un gran ritmo, la giusta dose di esotismo, colori saturi e le pennellate di vita che ci aspettiamo, sia lungo le strade che negli anfratti dove si ritirano i servi, oltre a brevi digressioni utili a illustrare qualche frammento dissonante di una cultura ai nostri occhi monolitica: la moglie “occidentale” di Ashok che prende spesso le difese del povero servo, il giovane padrone che, avendo risciacquato i propri panni sulla east coast, alterna con il servo atteggiamenti ecumenici e quasi paritari ad accessi di violenza; il servo che nel corso della sua evoluzione, sempre sorridente ma disposto via via a scavalcare chi lo precede nella gerarchia domestica, teorizza che i bianchi sono sul viale del tramonto, e il XXI sarà il secolo dell’uomo giallo e dell’uomo nero, tutti pronti a lasciare i villaggi polverosi per scoprire cellulari e computer. L’Occidente, scalzato dalla location, rientra sulla scena con una carrellata di totem morali: la tolleranza, il duro lavoro per migliorare la propria posizione, il diritto di ogni uomo alla felicità; e alcuni elementi universali, perché i cattivi sono dappertutto: la miseria della classe imprenditoriale, la corruzione della politica, il loro inevitabile incontro, l’oppressione dei poveri, la minaccia di ritorsioni per chi osa uscire dalla strada che gli è stata destinata.
La Tigre Bianca è un animale rarissimo, ne nasce uno solo ogni generazione, e Banran sa di esserlo per essere riuscito in una scalata che all’inizio sembrava impossibile. Film godibile, con un dosaggio equilibrato dei vari elementi scenici e narrativi, musica e script, trucco e costumi che ne costituiscono l’ossatura produttiva.

Ma cosa troviamo scartato l’involucro? Quali nuovi pensieri, opinioni, sensazioni ci portiamo (anzi, teniamo) a casa? Una sottile guerriglia psicologica come in Eva contro Eva di Mankiewicz, dove Eve Harrington sotto le sembianze di segretaria devota inizia la scalata ai palcoscenici di Broadway a scapito della sua mentore Margo Channing (script archetipico rivisitato decine di volte fino al fortunatissimo Parasite)? L’ambizione smodata e autodistruttiva, figlia di un’origine umilissima che deve essere assolutamente riscattata all’interno dello stesso mondo che lo aveva inizialmente escluso (da Scarface a Joker)? La dinamica del costante ribaltamento di potere all’interno di uno spazio chiuso, come la villa o la camera d’albergo dei padroni, magistralmente descritta in tanti film di Polanski fin da Il coltello nell’acqua?
Niente di tutto questo: se la confezione è indiana, la produzione è indo-americana e la distribuzione tutta made in USA.
E’ interessante come questo film sia stato catalogato dalla piattaforma che lo trasmette: testualmente “Anticonformistico, Provocatorio, Crudo”. Ci chiediamo cosa ci sia di anticonformista in un apologo di riscatto che segue il filone della narrazione del self-made-man. Di provocatorio in un racconto pienamente occidentale come cultura della prevaricazione, individualismo come paradigma di vita, denaro come generatore simbolico di ogni significato. Di crudo in qualche omicidio e slum descritti a volo d’uccello, un’umanità indistinta e proprio per questo depersonalizzata.
E poi altre domande: perché una lettera al premier cinese in cui raccontare una lunga sequela di reati all’interno di un sistema castale che impedisce l’ascensore sociale? Perché la strada che conduce più di un miliardo di persone alla scoperta di cellulari e computer e rappresentata in qualche modo come un percorso di beatificazione?
La fregatura è che è vera quella vignetta che circola online, e che dice “Siamo fatti al 99% dei film che abbiamo visto”. Se penso a Lettera da una sconosciuta di Max Ophüls, tratto da un racconto di Stefan Zweig, e a ciò che conteneva in termini di amore, crudeltà, ossessione, disonore, quello vero, che porta alla morte come unico possibile riscatto, la storia di una vita intera, e provo a “sentire” cosa mi ha lasciato La tigre bianca, mi scopro improvvisamente leggero. Sono la stessa persona di due ore e cinque minuti prima, senza entusiasmo o irritazione, senza nuovi dubbi o ipotesi di terre e persone da esplorare. Una storia capace di confermare ciò che siamo, pensando che sia sufficiente a rassicurarci, e a farci cliccare su altre storie come lei.
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