“Il Silenzio” è l’ultimo atto della cd. Trilogia del Silenzio di Dio, dopo “Come in uno specchio” del 1961 e “Luci d’Inverno” del 1962.
Ma vi è una profonda differenza tra l’opera finale e le altre due.
Chiariamo subito che la differenza non è di natura formale, estetica. Sono tre film completamente differenti tra di loro, con proprie sceneggiature, ambientazioni, interpretazioni.
La diversità è da ravvisare nella circostanza umana che rileva il distacco dell’uomo dal Divino. Nel primo film era il disagio psichico, nel secondo il terrore depressivo fonte del suicidio. Miserie terrene nei confronti delle quali la ricerca implorata dell’Eterno non viene corrisposta dal suo intervento interiore. Malgrado ciò, nelle prime due opere il silenzio di Dio non conduce ad un silenzio degli uomini, alla rinuncia a rinnovare la ricerca. Pur con i loro dubbi la tenue utopia resta. Nella scena finale di “Come in uno Specchio”, David conferma al figlio che la fede in Dio è l’ultima speranza che è rimasta all’uomo. In “Luci d’Inverno”, il Pastore Tomas non abbandona la toga malgrado i suoi atroci dubbi, continuando ad officiare le messe.
Invece, nel “il Silenzio”, nulla. Nessuna speranza. La trilogia finirà così.
Il Silenzio dell’uomo si pone come la circostanza che proverebbe il silenzio di Dio che a sua volta è la fonte del distacco, in una relazione permanente causa-effetto che hanno lo stesso oggetto. Bergman, nell’atto conclusivo, vira definitivamente verso il silenzio, cioè il vuoto. Quello personale, individuale, e l’Incomunicabilità intersoggettiva, o addirittura collettiva.
Il fulcro del film è rappresentato dal rapporto di due sorelle, Ester, razionale, Anna, irrequieta. La relazione tra sorelle, sempre imperniata da un forte simbolismo, la troveremo anche in un altro capolavoro di Bergman, “Sussurri e grida” del 1972 ove abbiamo assistito a quattro vertici archetipici di un quadrilatero. Due contrapposti simboleggianti in ogni caso l’Egoismo; gli altri due rappresentanti il Dolore, la terza sorella, ed infine la Pietas, personificata dalla governante. Una combinazione metaforica che purtuttavia consentiva allo spettatore di percepire una amalgma, anche equilibrata, di sentimenti pur se di sé avversi.
Nel “Il Silenzio” no: il conflitto, unicamente bilaterale, è drammatico, permanente, visibile, dove le uniche ininfluenti interlocuzioni sono rappresentate dall’ingenuità del figlio di Anna, Johan, il cui ancora labile sviluppo intellettivo può limitarsi ad osservare quello che avviene, e dalla presenza del cameriere anziano dell’albergo in cui le due sorelle soggiorneranno, la cui Pietas, pur esistente, è tuttavia marginale. Come non è influente la malattia di Ester, il cui svenimento in un treno causato da una grave malattia, all’inizio del film, provoca la permanenza delle due sorelle e del bambino in un albergo, sito in una città che se pur apparentemente viva è caratterizzata da quella incomunicabilità collettiva di cui prima accennavo.
E qui c’è una novità nella trilogia di Bergman. Una piazza. Viene superata l’intersoggettività propria degli altri due film, in cui abbiamo assistito ad ambientazioni di stampo teatrale (pur all’aperto), con pochissime persone, per arrivare ad una piazza, quella che affaccia dalla finestra della stanza d’albergo. Gente che va e che viene, vorticosamente, ed un cavallo scheletrico che è costretto a portare una carretta stracolma di suppellettili, ulteriore simbolo della incuranza umana.
L’incomunicabilità delle due sorelle è dolorosa. Come l’indubbio odio di Anna nei confronti della sorella malata che invece ama la prima. Una solitudine, quella di Anna, solo compensata da insane pulsioni, che la spingeranno a rapporti amorosi occasionali con un cameriere, anche davanti alla sorella. Il film terminerà con Ester morente in albergo ed Anna la quale, incurante del suo destino, continua il viaggio con il figlio, senza che neanche l’ultima parola da Johan pronunciata, “anima”, scritta su un foglietto lasciatogli dalla zia, possa cambiare il finale, e quindi il senso dell’opera.Il film è anche il più enigmatico dei tre.
La presenza dei carrarmati, pur se probabilmente non reali, può solo confermare quel senso di forte oppressione del film. Inquietudine evidenziata dai freddi dialoghi, dalle ambientazioni aride, dalla sapiente miscela di luci ed ombre con cui Bergman ha ottenuto due maestose interpretazioni dalle bravissime attrici, Ingrid Thulin e Gunnell Lidblom, sofferente fisicamente e moralmente la prima, apatica la seconda. Ma il vero dominus del film è uno solo: il gelido silenzio, quello incombente l’intera opera, che nulla, neanche qualche aria di Joahn Sebastian Bach, riuscirà a scongelare.
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