La visita (Italia, Francia, 1963). Regia: Antonio Pietrangeli. Interpreti principali: Sandra Milo, François Périer, Mario Adorf, Didi Perego, Gastone Moschin, Angela Minervini
Rispetto ad altri registi molto più conosciuti, Antonio Pietrangeli è un nome minore del cinema italiano. Ma con la sua capacità di raccontare storie minime di donne sconfitte, pur all’interno dei canoni imperanti della commedia all’italiana, riusciva a far entrare lo spettatore in mondi lontani da ironia e sarcasmo, in bilico tra la solitudine che iniziava a profilarsi nell’Italia del boom e il male di vivere che accompagnava in silenzio coloro che della rinascita economica del Paese non facevano parte.
Nell’epoca di tinder e grinder fa quasi tenerezza un annuncio pubblicato per trovare l’altra metà con cui condividere la vita. Sembra archeologia affettiva, una modalità morta e sepolta. Eppure negli anni Sessanta poteva capitare che due anime sole provassero a incontrarsi così.
Pina è impiegata presso il consorzio agrario di un piccolo paese di provincia che si affaccia sul Po, mentre Adolfo lavora in una grande libreria della capitale. Dopo uno scambio epistolare nato sulla posta del cuore di una rivista decidono di conoscersi e Adolfo prende il treno per raggiungere Pina nella sua città. Lei è vicina ai 40, solare e piena di vita ma stanca di vivere senza un affetto stabile; lui i 40 li ha già passati da qualche anno e vive una quotidianità piuttosto opaca, in un ambiente di lavoro che non lo apprezza. La sua frequentazione, solo sessuale, con una camiciaia che tuttavia non riesce a baciare in quanto lei ha un labbro rovinato, lo colloca all’interno di una relazione sufficiente solo a soddisfare i suoi istinti, e senza nemmeno troppo piacere.
Nel corso della giornata, il susseguirsi degli incontri con i paesani (dallo scemo del villaggio, innamorato di Pina, al camionista sposato che lei frequenta in attesa di essere amata alla luce del sole, a Chiaretta, una giovane del paese per cui Adolfo prende una breve sbandata) trasformano una conoscenza dapprima formale e forbita in un lento disvelamento della propria identità più profonda. Se i flash-back illustrano la parte nascosta del racconto, quei non detti che rischierebbero di rendere opaca la narrazione, sono i sentimenti autentici dei due protagonisti a salire alla ribalta con il passare delle ore: Alfredo si sente su un gradino superiore rispetto all’ambiente dove Pina ha vissuto fino a quel momento e, complice il lambrusco, non manca di farlo notare, evidenziando le fragilità che lei prova a celare dietro un corpo esplosivo e acconciature curatissime.

In cerca di un benessere al quale agogna ma che non potrebbe raggiungere in altri modi, Adolfo cerca di sedurre Pina con un’insistenza che però non nasconde la sua vera natura di piccolo uomo. Lei, pur sentendosi sola, non riesce ad accontentarsi di un uomo così piccolo e decide di dirgli tutto ciò che ha visto in lui di ipocrita, egoista e presuntuoso. Adolfo riconosce in quelle accuse una verità che lui stesso detesta. La giornata è finita, e con l’alba arriva un nuovo viaggio alla stazione, un’altra, più lontana, in cui i due si salutano promettendosi di continuare a scriversi. Così come si era aperto, l’incontro si chiude con la medesima cortesia un po’ affettata e insincera, come se la verità gridata dei sentimenti non potesse trovare spazio oltre lo sfogo sincero di un momento.
Tratto da un racconto giovanile breve di Carlo Cassola e sceneggiato da Ettore Scola e Ruggero Maccari, è un film di rara eleganza, con dialoghi curatissimi, degni della miglior tradizione della grande Hollywood degli anni Quaranta, da Ben Hecht a Samson Raphaelson. La malinconia di Pina, che in qualche modo avvolge tutte le donne portate sulla scena da Pietrangeli, racconta di una vita ai margini: completa di animali affettuosi, una casa di proprietà e un lavoro sicuro, ma priva di quella pienezza che solo una vera passione è in grado di dare. La capacità di raccontare questa assenza è solo uno dei talenti di un regista che ci ha lasciati troppo presto.
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