La vita agra (1964). Regia: Carlo Lizzani. Interpreti principali: Ugo Tognazzi, Giovanna Ralli, Giampiero Albertini, Nino Krisman, Rossana Martini, Elio Crovetto, Enzo Jannacci, Pippo Starnzza
Parabola unica nel panorama letterario italiano, quella di Luciano Bianciardi da Grosseto, nato 100 anni fa e morto, consumato dall’alcol, prima dei 50 anni. Una madre che lo spinge fin da piccolo a eccellere, un lavoro editoriale e di traduttore vissuto come impegno totalizzante, una vita affettiva divisa tra due realtà e raccontata nel suo libro di maggior successo che, dopo anni di oblio, è stato recentemente riscoperto.
Sono montagne russe che raccontano solo in parte la proteiforme attività di Bianciardi, che collaborò alla sceneggiatura del film, tratto dal suo romanzo pubblicato due anni prima, e in cui comparve per un breve cameo. Luciano Bianchi, addetto culturale della società che gestisce una miniera, è testimone impotente dello scoppio di una galleria e della conseguente tragedia che provoca decine di morti. Il suo senso di giustizia sociale lo spinge a cercare la vendetta e progetta di far saltare il grattacielo di Milano dove si trova la direzione generale della società. Con tale intento riesce a farsi assumere e ad avviare sopralluoghi all’interno della struttura, mentre nel frattempo inizia una storia d’amore con Anna, una ragazza di Roma conosciuta durante una manifestazione operaia, con la quale inizia a frequentare ambienti in cui si discute di politica.

Mentre la moglie è rimasta nella natia Guastalla insieme al figlioletto, Luciano scopre insieme ad Anna la passione per la politica e osserva con rammarico la devastazione che un progresso fuori controllo provoca nelle strade di Milano: martelli pneumatici, traffico congestionato, marciapiedi che schiacciano i pedoni, lo sfondo amaro di un mondo che inizia a venerare il consumo. Nelle osterie affollate di uomini e parole si discute di come dovrebbero andare le cose, negli spazi aperti la vita corre verso la direzione opposta, senza l’indulgenza del dialogo o il dubbio dato dal ripensamento. E in entrambi gli ambienti, quello chiuso e quello aperto, manca la luce di un’idea rivoluzionaria e brilla solo una vuota coazione a ripetere.

E così Luciano, che viene quasi sorpreso dalla moglie insieme ad Anna, resta sospeso nel progetto dinamitardo che aveva condiviso con un amico, rimasto ferito dallo scoppio della miniera. Sospeso in un mondo che non è il suo, ma i cui barbagli di luce lo stordiscono, finisce per accettare il ruolo che i padroni hanno ritagliato per lui, addomesticandone il talento e pagandolo a peso d’oro. Quello che Silvio Magnozzi riesce a fare nell’epilogo di Una vita difficile (1961) di Dino Risi, il gesto che riscatta un’esistenza nata ribelle e poi accucciata al canto delle sirene del capitale, a Luciano Bianchi non riesce. Non è più la sua, la battaglia anarchica di chi vuole riscattare la morte dei minatori con il collasso di un torracchione di cemento. Non gli appartiene più nemmeno quell’amore palpitante che lo aveva chiuso insieme ad Anna a fare traduzioni vivendo in una camera in affitto. La lascia partire dalla stazione di Milano senza fare nulla per trattenerla, consapevole di ciò che avrebbe potuto essere, di ciò che ha scelto, e di ciò che lo attende. Luciano è un uomo che ha perso, ma ha imparato ad abitare la propria sconfitta come un nido accogliente dove i saliscendi incerti dei desideri lasciano spazio alla soddisfazione dei bisogni.
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