Almodóvar gira un film di 30 minuti interpretato da Tilda Swinton e porta sullo schermo La Voce Umana, libera interpretazione della pièce teatrale di Jean Cocteau. La fine di una storia è l’inizio di una serie di drammatici eventi che portano alla luce la fragilità della dipendenza affettiva.
Almodóvar gira un film medio di 30 minuti interpretato da Tilda Swinton e porta sullo schermo La Voce Umana, libera interpretazione della pièce teatrale di Jean Cocteau.
La dipendenza affettiva nel rapporto sado-narcisista viene messa in scena e riassunta all’interno di un set visibile e estraneante dove la protagonista si muove, gira, dorme esce e rientra. L’uomo amato/odiato è una presenza potente, pesante fardello fisico/mentale al di là di quel mondo. Lui è la voce lontana a cui solo lei può rispondere e che solo lei può udire attraverso le cuffie del telefono.

La vediamo mentire, disperarsi, scusarsi, cercare di mantenere quella comunicazione che anche se straziante e vuota e svilente comunque esiste.
Lei cerca strategie, brandisce asce reali e coltelli immaginari, si umilia di fronte ad una distanza umana abissale e sorda. La sordità umana alla quale certe volte si tenta di dare un senso.
Il tema è forte e sarebbe coinvolgente ma il film anche se esteticamente perfetto, a partire dai titoli di testa, non riesce a trascinare l’osservatore nel vortice doloroso di irrazionalità delirante/psicotica della protagonista che rimane troppo legata al suo aplomb inglese. Si pensa con nostalgia al magnifico urlato e mediterraneo film Donne sull’Orlo di una crisi di nervi.
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