L’Arminuta è un film del 2021 tratto dal romanzo omonimo di Donatella di Pietrantonio.

La storia, ambientata negli anni ’70,  è quella di una tredicenne che era stata “donata” a una facoltosa signora di Pescara, imparentata con la famiglia di origine che, per le condizioni di estrema indigenza, l’aveva ceduta quando aveva solo pochi mesi di vita.

Per motivi che appaiono del tutto imperscrutabili, la ragazzina viene restituita alla famiglia d’origine.

Le immagini iniziali appaiono estremamente dinamiche e, al contempo, in grado di suscitare la stessa sensazione di ripulsa e di sgomento che prova la ragazzina. L’angustia delle scale, il grido congelato e intrappolato nello sguardo spaventato dell’Ariminuta dicono molto di più di qualsiasi spiegazione. Noi che osserviamo ne sappiamo esattamente quanto lei, cioè nulla.

Spesso infanzia e adolescenza sono segnate da un totale scollamento fra il mondo interiore saturo di immagini fantastiche e continuo desiderio di rassicurazione e certezze, e le informazioni effettivamente possedute, sempre poche e inefficaci a placare le paure profonde.

Qui la confusione della giovanissima protagonista provoca un senso di ansia claustrofobica che è resa con indubbia efficacia attraverso il contrasto tra l’abito azzurro da bambina borghese che lei indossa e gli stracci dei fratelli che solo in quel momento scopre di avere. 

Il regista ha optato per una regia sommessa e, al contempo, vibrante. Ha scelto, quindi, la stessa cifra stilistica che animava le pagine del romanzo che vivevano di vita proprio in virtù di una scrittura asciutta ed essenziale.

Il rischio era quello di scivolare nel melò, per l’intensità del dramma raccontato. Ma le immagini definiscono un ambiente rurale minimalista e, al contempo, ancestrale dove arriva la tredicenne Arminuta, che vuol dire, appunto, colei che torna.  Ma la ragazzina è incapace di comprendere quel mondo di cui ignora la estrema povertà e i codici di comportamento. La ragazza ha un bisogno fisico e animale della madre che lei ha ritenuto tale fino a poco prima e questo dolore lo urla, lo fa avvertite fisicamente. Rifiuta la madre biologica, trascurata e abbrutita dalla povertà, indurita dalla vita di campagna e capace di far trasparire il suo amore per i figli solo attraverso il cibo che prepara per loro. Proprio per questo la bambina si rifugia nelle immagini di purezza e bellezza dell’altra madre, evocate proprio per attingere a una sorta di serbatoio di vita, amore e speranza. E il suo amore è tale da indurla a scusare la mamma di Pescara attribuendole una malattia mortale pur di salvarla dalla distruzione della sua immagine buona.

La vita fotografata è l’Abruzzo lontano e impervio tagliato fuori da tutto, magnifico, imponente e indifferente alla solitudine e sofferenza umane. 

 La ragazza non vincerebbe il disgusto se non fosse aiutata dalla sorella Adriana, uno scricchiolo di bambina-donna, irresistibile nella sua parlata. Senza l’amore di lei e del fratello Vincenzo non ce l’avrebbe fatta. 

Questo è, infatti, il racconto di un inferno salvato dall’amore, è il racconto dell’orrore dell’egoismo degli adulti che prendono una bambina e ne fanno un pacco. Indesiderato. Ma la forza di cui la ragazzina arde la fa reagire e la trasforma, schiudendola alla comprensione di un mondo verso il quale all’inizio provava solo ripulsa.