L’Atalante (Francia, 1934). Regia: Jean Vigo. Interpreti principali: Michel Simon, Dita Parlo, Jean Dasté, Gilles Margaritis, Louis Lefebvre, Maurice Gilles
Jean e Juliette si sono appena sposati e partono per la luna di miele su una chiatta che li condurrà a Parigi. Insieme a loro il mozzo Père Jules e un aiutante. Capitano del mezzo fluviale è lo stesso Jean. Durante il viaggio la noia spingerà Juliette a cercare altrove, tra le strade di Parigi, ciò che gli spazi angusti della chiatta non le potevano offrire. Jean cercherà l’immagine della sua amata nelle profondità fluviali, ma sarà il suo equipaggio a darsi da fare per ritrovarla.
Tra le tante definizioni che sono state date del cinema, quella di Jean Cocteau arriva dritta alla sua essenza: il cinema è la Morte al lavoro. Pensata in riferimento agli attori, dei quali continuiamo a vedere il volto anche se non sono più tra noi, consegnati con la pellicola a un’eternità di fama e bellezza, vale anche per i registi; soprattutto quelli che con il loro ultimo film, sapendo che se ne stavano andando, hanno voluto firmare una sorta di testamento spirituale, raccontando nel breve spazio di una pellicola tutto il proprio mondo.
Pensiamo a John Houston che, ispirandosi a un racconto di Joyce, a 81 anni con The Dead – gente di Dublino, ci lasciò una riflessione lenta e profonda sulle occasioni perdute, gli amori svaniti, le scelte su cui sarebbe stato bello tornare se solo ci fosse stato ancora tempo. Ma anche a Cyril Collard, che nel pieno della sua giovinezza girò “Notti selvagge”, in cui raccontava la sua brama di vivere e di cogliere fino in fondo, a qualunque costo, i frutti di questa passione, accettandone ogni conseguenza. In mezzo a questi due estremi, per stile narrativo ed età anagrafica, ci sono tante altre storie da scoprire, sapendo che chi le ha girate era già consapevole che sarebbero state le ultime: Derek Jarman, Murnau, Rocha, Gathak, Fassbinder.
Ma nessuno è legato indissolubilmente alla definizione di Cocteau come Jean Vigo, che girò L’Atalante mentre era già malato e morì a 29 anni di tubercolosi, a un mese dalla prima del film, che venne successivamente rimontato dai produttori a causa del suo iniziale insuccesso.
In questo film-mondo, ha annotato Truffaut, c’è tutto: “L’esordio nella vita di una giovane coppia, le difficoltà di adattarsi l’uno all’altra, l’euforia dell’accoppiamento, poi i primi scontri, la rivolta, la fuga, la riconciliazione, e finalmente l’accettazione dell’uno da parte dell’altra”.
Immerso in uno stile di realismo documentario, è una storia di cambiamento ma anche di atmosfere in cui si sovrappongono, in un unico ambiente ristretto e nel corso di un viaggio, ambiti differenti tra loro come la quotidianità, il lavoro e l’amore.

Anche Vigo si era sposato da poco e aveva avuto una figlia. Cosa cercava di raccontarci, con questa storia così atipica, figlia di uno scorcio di secolo che presto avrebbe dimenticato le chiatte fluviali come mezzo di trasporto lungo i canali del nord della Francia? Forse i chiaroscuri dell’amore, che aveva iniziato a scoprire dopo il suo matrimonio e la nascita della figlia? O l’idea di una vita a due che sapeva non avrebbe potuto sperimentare in tutto il suo corso? O ancora i viaggi, le esperienze che Père Jules aveva fatto attorno al mondo, riportando da ogni luogo un ricordo e tenendolo nella sua cabina ormai strapiena?
Cosa pensiamo di lasciare alle persone che amiamo quando sentiamo dentro di noi che la strada sta per concludersi? Quale eredità, quale testimonianza? Quali sono i valori che hanno sostenuto, come un treppiede con la fotocamera, la nostra fragile esistenza? Possiamo solo immaginarlo, lasciando campo libero alla fantasia, scoprendo ciascuno cosa Jean Vigo ha voluto davvero raccontare.
Nella scena più iconica, mandata in onda per anni nella sigla di “Fuori orario” su Raitre, Juliette viene vista dal suo uomo fluttuare nell’acqua, con il velo da sposa che le fa da corona.

E’ quello l’amore ritrovato? L’amore vissuto in un’altra dimensione, più amniotica e primordiale, in cui il silenzio lascia fuori tutte le distrazioni che fatalmente con il tempo lo scalfiscono? Oppure è il bisogno di ritrovarsi altrove, senza più la fatica del vivere, il peso di giornate sempre uguali, la stanchezza di riti quotidiani da ripetere all’infinito?
Jean Vigo lo racconta così, invitando ognuno di noi a immaginare la risposta, lasciando intatta ogni possibilità.
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