L’avversario (2002) regia di Nicole Garcia

L’avversario è un film del 2002 diretto dalla regista Nicole Garcia e ispirato al romanzo omonimo di Emmanuel Carrère, suggestionato, a sua volta, da un efferato caso di cronaca verificatosi in Svizzera nel 2001. Un uomo finge di lavorare come medico e ricercatore all’OMS di Ginevra, ma, in realtà, non ha mai conseguito alcun titolo e per anni, con un serie di menzogne sorprendenti, inganna tutti i familiari. Quando sta per essere scoperto, uccide la moglie, i figli e i genitori per poi tentare il suicidio. 

La cifra stilistica scelta dalla regista è quella di scavare negli abissi di una mente che si avvita sempre più su se stessa con toni scabri e minimalisti.

Affiora così una crescente angoscia, mentre il senso di nulla e di vuoto scava un solco sempre più profondo in Jean-Marc Faure, il protagonista del film, magistralmente interpretato da Daniel Auteil. Lo sguardo straniato e pietrificato del protagonista ci racconta di una mente incapace di misurarsi con la realtà, soggiogata com’è dall’idea di un Ego smisurato che oscilla fra il desiderio di oggetti lussuosi (simbolo di un’appartenenza allo status borghese) e l’intrusione dell’improvvisa consapevolezza della inconsistenza e vanità dei nostri comportamenti. Il viso stralunato di Jean-Marc dà corpo a questo straniamento, la sua maschera facciale pietrificata ha qualcosa di mortifero che spaventa.

Tutti quelli che lo circondano credono che quella sorta di imperturbabilità sia da collegarsi a una grande timidezza e a un grande senso del decoro, il senso di sgomento così ben mimetizzato da far pensare solo a un carattere schivo e riservato. Dall’originaria bugia detta all’amico più caro, ai familiari e fidanzata (l’avvenuto superamento di un esame del secondo anno) scaturirà un enorme castello di menzogne. 

Il film si snoda su due piani temporali, il presente caratterizzato da una specie di incapacità di guardare nell’orrore e che pertanto procede per ellissi, e la ricostruzione della personalità di Jena-Marc attraverso le ricostruzioni di chi lo ha frequentato. Ma è tutto il film a ruotare attorno a una rimozione, ben modulata con l’ellissi narrativa del fatto, l’incapacità di guardare dentro l’orrore della morte. Man mano che alcune verità vengono a galla, Jean-Marc appare sempre più aggrappato al nulla, al temporaneo e illusorio sollievo dato da alcune transazioni economiche rese possibili dagli investimenti che gli sono stati affidati. Ma è vuoto il tempo che trascorre in macchina, vuota la sua relazione con la moglie, e ingannevole qualsiasi rapporto si instauri nella sua vita. Le sue azioni diventano pertanto sempre più fisse e stereotipate. Una coscienza malata e risucchiata nella menzogna troverà sollievo solo nella morte, emblematicamente inflitta al prodotto della sua vita menzognera, cioè la sua famiglia.

La storia indugia sugli oggetti propri del decoro borghese, come la casa e la macchina, che illudono il protagonista di essere riuscito a raggiungere l’obiettivo del successo tanto bramato e, ahimè, continuamente differito nel tempo.  Da tutto questo emerge il senso stesso della labilità delle nostre convinzioni, insieme alla presunzione di conoscere le persone che ci circondano.