Le onde del destino (titolo originale Breaking the Waves, Danimarca, Svezia, Francia, Olanda, Norvegia, 1996). Regia: Lars von Trier. Interpreti principali: Emily Watson, Stellan Skarsgard, Katrin Cartlidge, Jean-Marc Barr, Udo Kier, Adrian Rawlins, Jonathan Hackett, Sandra Voe

La memoria fa scherzi piuttosto originali, e rivedere un film per la prima volta dopo 26 anni ne è la prova. Di “Breaking the Waves”, visto in anteprima italiana in un cinema del centro di Firenze prima ancora che gli venisse attribuito il titolo italiano, ricordavo la straordinaria interpretazione di Emily Watson, giovane attrice sconosciuta sul grande schermo ma di solida esperienza teatrale; l’ambientazione in un piccolo paese nel nord Europa chiuso, piovoso e bigotto; e il fatto, per me allora difficilmente spiegabile, che una volta diventato impotente il marito avesse suggerito alla sua amata di andare con altri uomini per raccontargli poi cosa era successo. Quest’ultimo fatto, in particolare, mi era rimasto dentro come qualcosa di non risolto. Poi una nuova visione dello stesso film, e una storia molto diversa dalla prima.

Certo ha inciso la successiva conoscenza del regista, tutti i film in cui ha espresso la sua poetica e il suo mal di vivere, il dolore che si porta dentro e le declinazioni che ha scelto per rappresentare la diade sesso/religione. E così la storia del sesso occasionale cui Bess, la protagonista, era stata in qualche modo costretta, aveva assunto un ruolo rilevante nel gioco dei ricordi.

In una villeggio del nord della Scozia, una comunità calvinista ostile e diffidente, la giovane Bess incontra e sposa Jan, svedese e quindi straniero.

Bess è ingenua, pura, parla di frequente con Dio che le risponde con la sua stessa voce. Gli confida le proprie speranze e lo ringrazia per il grande amore che le ha mandato. Quando Jan si trasferisce per lavoro su una piattaforma petrolifera del Mare del Nord a Bess non bastano le rare telefonate che riceve in una cabina battuta dal vento: lei lo vuole di nuovo con sé, al più presto.

E poco dopo, a seguito di un incidente che lo rende invalido e ne mette a rischio la stessa vita, Jan viene riportato a casa. A questo punto c’è l’inversione dell’onere del destino: non è più Dio ad averle mandato indietro un marito infortunato e costretto a letto, ma per Bess sono state le sue preghiere, il suo egoismo, il suo desiderio ad aver provocato l’incidente.

E’ a questo punto che Jan, ignorando completamente il contesto in cui si trovano, la invita a frequentare alti uomini: non potendola soddisfare, le chiede di vivere attraverso altre persone la passione che li aveva uniti fino a quel momento. Gli incontri di Bess saranno degradanti, fino al punto di farla bandire dal villaggio e poi rinchiudere in un centro di salute mentale. Ma la purezza e l’ingenuità di Bess non arretrano nemmeno a uomini laidi che la usano senza ritegno: ciò che per lei è una promessa d’amore, per il consiglio degli anziani è solamente disprezzo di quel Dio a cui lei continua a chiedere perdono. Lo stesso Dio misericordioso cui si rivolge la protagonista diventa per gli gli uomini che governano il villaggio una forza potente e vendicativa, al punto che nemmeno dopo la sua morte potrà essere ricordata come la donna ingenua e piena d’amore che era.

Diviso in un prologo, sette capitoli e un epilogo, e ricordato per anni come un film dove il sesso era vissuto come malato, mi appare oggi soprattutto come una storia sull’oppressione e sul controllo all’interno di una comunità chiusa. La dimensione, da affettiva, è diventata sociale, da individuale politica. Il Dio evocato è costruito dalla comunità come il simbolo di un ordine morale che non può essere scardinato, pena il crollo del recinto con il quale l’insieme dei fedeli fa scudo nei confronti della durezza della natura e dell’aridità dei sentimenti. Solo poche persone comprendono Bess, e la forza del loro insieme sarà in grado di generare un miracolo.

Enfatico, ridondante, passionale, geniale (nei quadri e nelle musiche che punteggiano i capitoli) e irritante (negli stilemi del suo dogma, dalla camera a mano alla fotografia sgualcita), Von Trier continua a parlarci e indispettirci con la rappresentazione dei fantasmi che lo accompagnano da tutta la vita.