L’homme d’argile (Francia, 2023). Regia: Anaïs Tellenne. Interpreti principali: Raphaël Thiéry, Emmanuelle Devos, Mireille Pitot, Marie-Christine Orry
Una grande villa di campagna francese, con le torrette a punta ed ettari di parco da curare quotidianamente, è lo spazio in cui Raphaël lavora da tempo. Ha 58 anni, un occhio solo, un corpo imponente ma comunque adatto ai pesanti lavori di manutenzione che deve affrontare ogni giorno. Nella prima scena lo vediamo sdraiato a terra, sul prato antistante il corpo principale della villa, mentre fa esplorare le gallerie scavate dalle talpe. Poi ne preleva le carcasse, che appende ordinatamente su alcuni fili. E’ uomo di poche parole: i dialoghi con la madre, con cui abita in una dépendance sono ridotti al minimo; quelli con la postina del paese, che gli propone acrobazie sessuali nel bosco, del tutto assenti. L’unica possibilità che si concede per esprimersi è suonare la cornamusa in un gruppo di musica popolare celtica, con cui si incontra settimanalmente in un locale del paese per fare le prove.
Questa routine viene interrotta quando in una notte di pioggia piomba nella dimora Garance, l’ultima erede della dinastia che ha posseduto la villa per secoli, e i cui ritratti sono appesi alle pareti delle stanze. La padron di casa è un’artista concettuale in cerca di ispirazione: dopo un periodo di depressione culminato con un tentativo di suicidio, Garance inizia a ricostruire la propria identità di artista, a progettare nuove opere e creare una scultura di argilla, con le sembianze di Raphaël, al quale chiede di posare per lei.

La danza tra i due ha inizio: lei ascolta la musica che Raphaël suona la notte all’interno di una piscina vuota; lui si domanda chi sia davvero lei, cosa stia cercando, perché lo vuole come modello. E inizia ad aprirsi, lentamente, a quel mondo dal quale si era sempre sentito rifiutato, fino ad acquistare un occhio di vetro che possa finalmente sostituire la benda che ha sempre utilizzato. Garance lo utilizza come modello, lo guarda, lo studia, gli aggiusta la posizione del mento e delle braccia, e Raphaël per la prima volta si sente visto, sente su di sé uno sguardo che non è quello commiserevole della madre o quello esigente della postina. E’ uno sguardo attento, pieno di cura, che pure rimane confinato nello spazio della relazione tra artista e modello. Ma lo sguardo ricevuto modifica la persona osservata, che per il solo fatto di essere stata osservata ricostruisce la realtà con occhi nuovi.
E cosa succede alla fine, quando il lavoro è concluso e la sovrapposizione tra modello e opera non ha più motivo di esistere? Il modello torna a essere l’uomo chiuso al mondo che era prima? O invece riesce a pareggiare le buche del giardino lasciate dagli scavi delle talpe, a riempire i suoi spazi vuoti come vuota era l’orbita del suo occhio mancante?
L’esplorazione dei sentimenti del cinema francese trova nel rapporto tra arte e vita nuova linfa per raccontare una storia bellissima, in cui ciascun protagonista cerca nello sguardo dell’altro quella potenza creativa che era diventata ormai una routine. Uno sguardo nuovo che accende il desiderio e riesce a distillarlo lungo giornate che finalmente hanno un senso. Straordinari i due protagonisti nell’esprimere il lento modificarsi della propria passività in passione, prima repressa e poi pronta ad esplodere.
La postura della statua d’argilla sulla quale Garance lascia l’impronta delle sue mani ricorda da vicino Le Penseur di Auguste Rodin. Ma l’uomo che pensa, grazie alle sue mani, diventerà l’uomo che sogna.
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