REALE E REALTA’: IPOTESI DI AUTOTRANFERT

“L’angoscia come segnale del reale” (J.Lacan)

La dr.ssa Jenny Isaksson, psichiatra, si trova ad un certo punto della sua esistenza di fronte ad un concatenarsi di tre situazioni emotivamente e reciprocamente condizionanti: l’assenza del marito, partito per un congresso, una casa pronta ma completamente vuota, ancora da arredare, la necessità consequenziale di andare a vivere per due mesi nella casa dei nonni ove Lei, a causa della morte prematura per un incidente dei suoi genitori, aveva per molti anni già vissuto da bambina.

La casa d’infanzia, pertanto, quale luogo esclusivo della reminiscenza di una parte essenziale del proprio e nostro vissuto.

La casa quale insieme di oggetti, di stanze, di finestre e dei mobili. Di tutto ciò che ci preserva, ci accoglie, ci conforta, ci coccola, soprattutto nei momenti difficili.

Rappresentativa quindi della nostra Realtà che, in quanto tale, è protettiva, che compone, armonizzandola, quella scissione, quella divisione, dell’Io con il nostro inconscio, quale essenza psicologica di ogni essere umanoMa, soprattutto, nel bene e nel male, la casa è anche il luogo del “parlato”, del “sentito”, dei dialoghi, delle discussioni, delle fobie. Cioè di quell’atmosfera propria di una classica famiglia, dove spesso il vincolo di sangue che lega tutti i componenti non esime gli stessi ad accuse nei confronti di qualcuno di loro, di piccoli complotti, invidie, congiure.

Esattamene ciò che un qualsiasi bambino, nel percorso della sua soggettivazione, recepisce maggiormente. Rischiando di assorbirlo, per sempre.

Jenny questo lo sa. Perché quelle discussioni sul Padre, quelle accuse di essere una cattiva bambina, sono oramai parte integrante del suo rimosso: di quello che si pensa di aver cancellato, ma che inevitabilmente ritorna. E riemergono proprio nella classica domanda: Chi sono io? Cosa vogliono da me? Cosa si aspettano da me?

Jenny entra in quella casa, trova la nonna ancora energica, affabile, felice di rivederla, ed il nonno, invece, oramai paralizzato: ma tutto, inconsciamente, appunto, risorge.

Come? Nelle visioni angoscianti ed improvvise, in quella stessa casa, di una donna anziana, sconosciuta, tetra, che la fissa inesorabilmente, rimanendo completamente muta, ferma, per pochi secondi, prima di sparire. Una donna che assomiglia sia alla mamma che alla nonna, pur non essendo né l’una né l’altra, quindi con un viso in ogni caso familiare.

L’angoscia ha assunto la forma di un volto che rappresenta sembianticamente la sintesi del suo passato. Ed ancor più grave, il Reale che si è presentato di fronte la scaraventa fuori da quella Realtà rassicurante, ovattata, che l’aveva protetta.

L’incomunicabilità con la figlia Anna, il tentativo, non riuscito, di violenza carnale di due uomini nei suoi confronti nella casa disabitata, incrementa, visibilmente, il senso di angoscia che Jenny sente su di sé, e che neanche il rapporto con un suo collega medico, Tomas Jacobi, riesce ad allentare.

Non riesce più a rientrare nella Realtà.

Stati di ansia, di disperazione, risi isteriche seguite da pianti, un crescendo allucinante che culminerà in un tentativo di suicidio a seguito di ingerimento di vari psicofarmaci.

E qui Bergman, da grande indagatore dell’animo umano, compie una doppia operazione: rappresenta al pubblico il Reale dell’angoscia e dopo, l’autoanalisi liberatoria di Jenny.

Jenny cade in uno stato comatoso, pieno di sogni inquietanti. Le visite mediche incomprensibili nella clinica ai suoi pazienti, Lei che vede se stessa che viene chiusa viva dentro una bara, alla quale essa stessa dà fuoco con un ghigno satanico, l’inquietante visione della donna misteriosa che la tocca, coccolandola, l’incontro con i due genitori: incubi che attanagliano la sua già fragile psiche.

Superato il coma, viene il tempo della rinascita.Jenny, in una strepitosa, sul piano attoriale, autoanalisi, davanti ad un silenziosissimo Tomas, non assume una sola veste, quella propria. Ma rappresenta anche la mamma, e la nonna. Modula le voci, si torce, si alza, si raggomitola, assume su se stessa, una e trina, le tre figure, in una simbiosi recitativa e poliedricamente interpretativa che solo una grande attrice, come Liv Ulmann, poteva personificare.

.Jenny guarirà. Ma la guarigione passerà attraverso un percorso brevissimo ma intensissimo, una perla di quest’opera.Se il dialogo finale con la figlia riconferma ancora l’incomunicabilità tra le due donne, sarà proprio una scena che si pone davanti agli occhi di Jenny che la farà rientrare nella Realtà, abbandonando l’angoscia del Reale.

La nonna accarezza il nonno, oramai morente. Ed in quella carezza Lei coglie il senso dell’esistenza: “…..E ad un tratto capi che l’amore abbraccia tutto…..anche la morte”.

Jenny è salva.