L’immensità (Italia, Francia, 2022). Regia: Emanuele Crialese. Interpreti principali: Penélope Cruz, Luana Giuliani, Vincenzo Amato, Elena Arvigo, Filippo Pucillo, Aurora Quattrocchi
Charles Aznavour era il cantante preferito di mio padre. Da piccolo ascoltavo le sue canzoni cercando di capire cosa avesse di così speciale da riuscire a far cantare un adulto sotto la doccia con le sue parole. Chissà quali corde sapevano toccare quelle sonorità così malinconiche, quell’accento francese, quello sguardo da crooner triste. Poi si arriva all’età dei padri, a volte la si supera (con stupore, perché è difficile accettare l’idea di essere diventati più vecchi di chi ci ha insegnato a vivere), e si cominciano a capire molte cose.
Una sveglia prima dell’alba – solo al Lido capita di assistere a uno spettacolo alle 8.00 di mattina – e una recensione pesantemente negativa su questo film erano le premesse ideali per una pessima esperienza da spettatore. Invece, agli occhi di chi scrive, L’immensità si è rivelato uno scrigno da aprire lentamente, un parco giochi di ricordi legati all’adolescenza, che un regista coetaneo ha saputo riprodurre con la magia di una macchina del tempo. Ma non solo per le incursioni nella cultura pop della Rai in bianco e nero, o nei balli scatenati della Carrà e di Celentano, o per la terrificante carta da parati che decorava gli interni degli appartamenti negli anni Settanta. Non è solo la giostra del tempo che è tornata indietro con la descrizione fedele di un’epoca ormai scomparsa. Certo, aiuta a predisporre a una visione favorevole, a volte a cantare sotto la mascherina per la gioia dei vicini di poltrona, ma non è certo sufficiente.
Clara e Felice si trasferiscono nel nuovo grande appartamento con i tre figli.

Lei è una madre piena d’amore, pronta a giocare con loro assecondandone linguaggio e desideri; lui è un padre assente, un traditore seriale, e quando pranza insieme alla famiglia gli unici rumori consentiti sono i rebbi delle forchette sul piatto e i suoi insistiti inviti alla figlia piccola a mangiare qualcosa. Adriana, la figlia dodicenne, indossa abiti maschili e vuole farsi chiamare Andrea.

Una smagliatura in una famiglia che il padre vorrebbe ordinata e che invece si infrange sotto i suoi occhi, priva di controllo. Oltre ad Adriana evidenziano il proprio disagio anche Gino, il figlio maschio, con i suoi problemi di alimentazione; e Clara, che dopo aver dato fuoco al salotto viene ricoverata in una struttura psichiatrica e sostituita nella cura dei figli dalla nonna paterna. Nelle sue evasioni, termometro dell’incapacità di restare racchiusa in ciò che ci si aspetta da lei, Adriana raggiunge un vicino campo nomadi e fa conoscenza con Sara, una coetanea rom, cui si presenta con il proprio nome maschile. Il loro incontro sarà breve, il campo nomadi sgomberato e la madre, apparentemente rimessa in carreggiata dopo un mese di cure, tornerà a casa. Ma niente potrà distogliere Adriana/Andrea dal suo processo di crescita personale e dal cercare il proprio posto nel mondo, nemmeno un padre manesco incapace di giocare con i suoi figli.
Film profondamente autentico, che i passaggi a vuoto della sceneggiatura (troppo accennato il rapporto tra i due mondi di Sara e di Adriana/Andrea, troppo schematici nella loro contrapposizione i profili del padre e della madre) non danneggiano proprio perché la sincerità, comprensiva dei rischi che fa correre al regista, prende il posto del prodotto artistico ben congegnato. Venezia quest’anno racconta la fluidità dei generi, che molti commentatori hanno identificato come trait d’union di molte pellicole.
In realtà ciò che colpisce è l’articolazione, ogni volta distinta, dei racconti di transizione, o accettazione di sé e della propria specificità rispetto alla media delle altre persone. Non diversità (rispetto a chi, a cosa, a quale canone da rispettare, e stabilito da chi?) ma differenza. Nei percorsi di crescita, nel modo di affrontare i conflitti, nelle scelte conseguenti a punti di partenza difformi rispetto ai coetanei. Ecco, racconti come questi hanno bisogno di una penna sincera, imperfetta e leale: quella che Crialese, che lo ha sceneggiato con Francesca Manieri e Vittorio Moroni, ha saputo intingere nell’inchiostro della propria storia.
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