“Fatto è meglio che perfetto”
Questa è una di quelle frasi che ricorderò sempre, la prima volta che qualcuno, con una semplice espressione, sradicava circa 25 anni di convinzioni (devianti, più che incoraggianti).
In questa analisi di Little Miss Perfect, film scritto e diretto da Marlee Roberts del 2016, cercherò di descrivere il reale significato di perfezionismo.
Si, il perfezionismo, quella bestia che accieca e fa in modo che ci neghiamo ogni possibilità di agire. L’uomo nero che incatena la nostra volontà, che bastona le idee, il talento e le sane ambizioni. Il guardiano della torre, il drago che tiene prigioniera la principessa delle nostre azioni, del nostro muoverci in-avanti. La strega che ingabbia Hansel e Gretel ma invece di mangiarseli in un solo boccone aspira a condannarli ad un’infanzia perenne, un bambino impaurito in un corpo che il tempo non risparmia.
Prima di procedere è necessario un chiarimento del concetto di perfezionismo.
Ecco, non si intende “aspirare al meglio”, quanto avere un terrore indescrivibile di sbagliare, di fallire. Se abbiamo mai procrastinato, preso tempo, lasciato decisioni e scelte in sospeso. Se ci siamo mai sentiti immobili davanti a un bivio, se “manca sempre qualcosa”, se l’abitudine è rimandare, non provare, beh, allora siamo tutti un po’ Little Miss Perfect.
Ora, il film tratta il disturbo alimentare dell’anoressia, che come sappiamo poggia molte delle sue maledette basi sul concetto distorto della perfezione. Non è mai abbastanza, non ci si concede o riconosce di aver fatto bene qualcosa. Fare, non equivale a soddisfare la sete implacabile del demone del perfezionismo. Tutto deve corrispondere a un canone inesistente, perseguire un obiettivo che non solo non esiste, ma non ha alcun significato.
Pensiamoci bene, cosa si intende per perfezione? A cosa paragoniamo le nostre imprese di tutti i giorni per reputarle “perfette”?
La ragazza protagonista del film, l’anoressia, ma anche la quotidianità di ognuno di noi si basano su standard che non sappiamo valutare perché non esistono.
L’idea di dover essere e fare tutto alla perfezione nasce dalla paura di essere giudicati, di perdere il controllo su sé stessi e sugli altri. Ma la verità è semplicemente che quello che è perfetto per me può risultare disastroso o sbagliato per un altro individuo.
Questo ci porta inevitabilmente a combattere una delle battaglie più spaventose contro noi stessi: il raggiungimento e addirittura il superamento di standard che sono ombre, fantasmi creati da una mente che ambisce a qualcosa che non esiste e che per definizione non può che “impazzire”. L’anoressica risponde alla sirena dentro di lei, un demone dalle sembianze straordinarie che la perfezionista vuole raggiungere. Ma sappiamo bene dove trascina quel canto. Un viaggio negli inferi, trainati in fondo senza possibilità di risalita.
“Se faccio tutto alla perfezione allora nessuno può esprimere qualcosa di negativo su di me”. Nulla di più pericoloso.
Ambire alla perfezione per noi stessi non è un approccio sbagliato, diventa patologico se la nostra perfezione diventa narcisisticamente quella assoluta. Diventa un problema quando si trasforma questo senso di perfetto in una scusa per non fare, per restare immobili davanti alla vita che scorre. Come quei fermi immagine in cui siamo testimoni del personaggio che guarda fuori dal finestrino di un treno in corsa. Quella rischia di diventare la nostra vita, troppo impegnati come siamo a trarre la perfezione da un’esistenza che è imperfetta per definizione.
Senza considerare che la ricerca spasmodica della perfezione ci impedisce di entrare in connessione con l’altro, di creare una vera intimità. Questo confermerà la convinzione personale dell’anoressica di non essere amata abbastanza, di non essere accettata per quello che è. Estirpando il parassita delle scuse e delle giustificazioni che diamo a noi stessi per rinforzare una tesi errata, vedremmo le cose per quello che sono. Non siamo perfetti, la mia perfezione non è uguale alla tua e non devo essere perfetta per essere amata. Allo stesso modo, non posso competere con l’idea di perfezione per fare qualcosa, perché questo non farà che ingabbiare la voglia e la possibilità di agire, di costruire, di avanzare, di crescere. Crescere significa assumersi la responsabilità delle azioni che facciamo, ma se siamo adulti troppo spaventati per compierne una, allora saremo destinati a vivere una non-vita.
Il perfezionismo così inteso mina l’autostima, suggerisce una destinazione irraggiungibile.
Il perfezionista, così come la ragazza protagonista del film, vive un’eterna punizione di sé, dando spazio ad un delirante dialogo interiore per cui non sarà mai abbastanza.
Paradossalmente, dal cercare di fare tutto alla perfezione, anche Little Miss Perfect finisce col non-fare. Ci si immobilizza, ci si toglie, ci si nega e ci si punisce aspettando che qualcuno ci liberi dalle catene di cui noi e solo noi possediamo le chiavi.
Rispetto ad altri film, Little Miss Perfect tratta il tema del disturbo alimentare con un certo distacco, forse un po’ banale e striminzito. Ma vale la pena fare una riflessione circa il significato stesso del titolo del film, sul concetto di perfezione a cui tanto aspiriamo ma che non conosceremo mai davvero.
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