“Lo sai cosa mi manca davvero dell’Italia?
I colori.
Catania è nera; Siracusa è gialla; Udine è bianca; Bologna è rossa; Modena è gialla.
Qui invece è tutto irrimediabilmente beige: i muri, le strade, la sabbia
Perfino io”

L’ordine delle cose (Italia, Francia, Tunisia, 2017). Regia di Andrea Segre. Interpreti principali: Paolo Pierobon, Giuseppe Battiston, Valentina Carnelutti, Olivier Rabourdin, Fabrizio Ferracane, Yusre Warsama, Roberto Citran, Fausto Russi Alesi, Hossein Taheri..

Nell’alternarsi tra film di finzione e documentari Andrea Segre utilizza il proprio sguardo antropologico per raccontare il mondo di oggi attraverso la lente delle grandi migrazioni, siano esse parte della cronaca che trabocca dagli schermi, sia piccole storie isolate che non fanno statistica né destano stupore mediatico. Lo fa con un senso di necessità, con l’urgenza di raccontare ciò che sta diventando il nostro mondo, ma sempre evitando giudizi o schierandosi. Anzi, lo schierarsi non è contemplato perché presupporrebbe una dicotomia: o di qua o di là, o con noi o contro. Segre racconta una realtà più articolata, dove spesso in molti hanno ragione, o quantomeno le proprie ragioni da raccontare.

Corrado è un funzionario del Ministero degli Interni, un poliziotto in gamba con un cursus honorum invidiabile: campione di scherma, una bella casa nelle campagne di Padova, una moglie presente e due figli affettuosi. Ossessionato dall’ordine, quando non è in missione all’estero attraversa la strada per collocare correttamente il bidone dei rifiuti della villetta di fronte, in modo che non invada il marciapiede. Gli ambienti domestici sono luminosi, ampi, perfettamente lineari. Il sottosegretario che lo manda in missione in Libia, per convincere quel Paese a bloccare i flussi di migranti, ha un pesante accento padovano, ha frequentato l’alberghiero ad Abano, ma la politica lo ha sistemato nella stanza dei bottoni, in cui si muove con abilità insospettata.

Una volta in Libia, Corrado scoprirà che non è semplice rispettare l’ordine del suo Ministro di bloccare i flussi finanziando la guardia costiera e la costruzione di centri di detenzione, perché il Paese è privo di un vero governo e in balia di lotte tribali. Qui Corrado agirà comunque per il bene dell’Italia, facendo il suo dovere e manovrando i suoi interlocutori libici per raggiungere il proprio obiettivo. Ma una piccola scalfittura si insinua in questo mondo perfetto: Swada, una profuga somala rinchiusa nel centro di detenzione che Corrado sta visitando insieme al funzionario francese e al suo corrispondente italiano in Libia, lo avvicina e gli consegna una memory card da portare a Roma a uno zio.

Corrado si ritrae, ma non abbastanza velocemente da rifiutare il contatto o respingere la richiesta. Swada emerge così dallo sfondo afoso, querulo e puzzolente di centinaia di profughi indistinti segregati in un lager, esce dal processo di deumanizzazione cui l’hanno segregata i trafficanti di uomini (ma anche il mondo occidentale) e assurge al ruolo di essere umano.

Corrado inizia il proprio percorso di individuazione, un viaggio alla scoperta del sé che lo condurrà oltre la meticolosità dei propri comportamenti, l’asservimento al dovere d’ufficio, l’abito di padre marito e collega sempre perfettamente stirato. Il viso e il corpo di Swada li incontrerà altre volte, online e di persona, fino ad accorgersi che i trafficanti libici usano i migranti per riempire le proprie tasche e non per adempiere un incarico datogli dall’Italia e finanziato dall’Unione.

Swada è ciò che lui avrebbe potuto essere, e gli risulta insopportabile l’ingiustizia alla quale è sottoposta, l’impossibilità di ricongiungersi al marito in Finlandia, la vita che le è sottratta. Nondimeno, Swada rappresenta anche IL problema dell’Italia, quello che il suo Ministro intende affrontare in due settimane per rendere “notiziabile” all’opinione pubblica che sì, diamine, la politica delle decisioni sta offrendo risposte forti e chiare.

Il dilemma, ancora una volta, è tra la ragion di Stato e quella del cuore; o, per dirla con Antigone, tra la Legge dell’Uomo e quella di Dio. La sabbia che Corrado raccoglie nelle spiagge libiche e porta a casa in bottigliette tutte uguali viene dispersa nella sua camera d’albergo, il giorno prima del suo rientro in Italia, quasi che il suo ordine delle cose costruito meticolosamente negli anni potesse essere messo in discussione.

Amo tantissimo il modo di raccontare di Andrea Segre. Mai chiassoso, enfatico, o banale, mai a tesi, ma sempre perfettamente in grado di rappresentare una problematica sotto i suoi molteplici aspetti, con una densità che sa essere dirompente. Ogni dialogo tra i personaggi, siano protagonisti o comprimari, racchiude mondi potenziali per esplorare ciascuno dei quali occorrerebbe un film (come la riflessione di Luigi, responsabile dell’ambasciata italiana, riportata in esergo). Lo scontro tra diversità è il campo su cui lavora Corrado: lo stesso che lo porterà a ripensare, per un attimo, ogni sua convinzione.