L’ultima luna di settembre (Mongolia, 2022, titolo originale Ėrgėž irėhgüj namar). Regia: Balžinnâm Amarsaihan. Interpreti principali: Balžinnâm Amarsaihan, Garamhand Tėnüün-Ėrdėnė, Sovd Damdin, Davaasamba Šarav, Cerendarizav Dašnâm
Tulgaa vive e lavora nella capitale come manager di un hotel. Una sera riceve una telefonata che gli comunica che il padre è in fin di vita e gli suggerisce di tornare vederlo un’ultima volta. Inizialmente riluttante a causa del lavoro e di una relazione problematica, lascia tutto e affronta un lungo viaggio per raggiungere la iurta dove si trova il padre. Nei pochi giorni passati insieme si scambiano poche parole, è una vicinanza fatta soprattutto di cura e gesti silenziosi; fino a quando il padre, che lo aveva accolto da piccolo pur non essendo il genitore biologico, gli chiede scusa per l’affetto che non è riuscito a dargli. Il padre chiude il cerchio della sua vita lasciando al figlio il proprio amore, alcune cose da fare, e muore.
Tulgaa decide così di rimanere per lo sfalcio del fieno nel campo del padre, da effettuare a mano perché la scuola, che sovrintende le attività agricole della zona, è priva di un mezzo meccanico. Mentre sta lavorando gli si avvicina un ragazzino a cavallo, che pascola le pecore dei nonni che vivono nella iurta vicina (nella steppa mongola quello di vicinato è un concetto relativo). Il primo incontro è soprattutto uno scontro in cui Tüntüülej – questo il nome del bambino – provoca Tulgaa. Ma con il passare dei giorni e l’incedere dell’estate impareranno a conoscersi, a cercarsi e giocare insieme.
Tüntüülej vive con i nonni, ha una madre che lavora lontano e si disinteressa di lui, e il suo unico mondo è la steppa vista dall’altezza di una sella su cui fa fatica a salire. Quello di Tulgaa è fatto di giornate passate a elaborare un lutto aiutato dal silenzio attorno a lui e da un lavoro duro e ripetitivo, chiedendosi cosa fare della sua vita in quella parentesi silenziosa e lontana, tra un cielo e una prateria entrambi infiniti. Ma l’ultima luna di settembre, quella in cui la raccolta del fieno sarà terminata, si avvicina, e così l’addio tra i due, che nel frattempo hanno costruito un rapporto tra padre e figlio. Il padre che uno ha perso e l’altro non ha mai avuto.
Tulgaa costruisce una torretta per consentire ai pochi nomadi del posti di salirci e poter prendere l’unica cella che consente l’utilizzo del cellulare.

Si integra lentamente in questa piccola comunità scompaginata dalle distanze e dall’alcol, in cui la natura ha un netto sopravvento sull’uomo, al quale con il ritmo delle stagioni detta compiti e attività. Ma è Tüntüülej a stanarlo dai suoi silenzi ed accoglierlo in una paternità in cui si ritrova quasi senza rendersene conto.
E’ una storia che piacerebbe molto a Hirokazu Kore’eda, il cui cinema gira da sempre attorno alla domanda su dove possa albergare l’amore, se nella famiglia di sangue o in quella costruita per caso, lungo il cammino. E forse anche a Denys Arcand, che ne Le invasioni barbariche fece rientrare da Londra un figlio per accudire il padre malato, stare con lui e aiutarlo ad andarsene. Ne L’ultima luna di settembre è l’ambiente circostante a cambiare e rendere potente la storia: i colori del cielo e della terra, i dialoghi scarni tra i pochi personaggi, i passatempi costruiti con bastoni di legno e lacci, una giornata passata a pescare, un carretto da far correre giù per la collina.

Non ci sono costruzioni fisiche o verbali o comunicazioni che arrivano da lontano, ma solo un immenso spazio vuoto dove un’energia invisibile lentamente prende campo e si fonde con una natura assoluta.
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