M – Il mostro di Düsseldorf (titolo originale M – Eine Stadt sucht einen Mörder, Germania, 1931). Regia: Fritz Lang. Interpreti principali: Peter Lorre, Inge Landgut, Ellen Widmann, Gustaf Gründgens, Friedrich Gnaß.

Il nazismo doveva ancora arrivare: solamente due anni più tardi Hitler avrebbe vinto le elezioni parlamentari in Germania, proiettando in pochi anni il proprio Paese e gran parte dell’Europa nel più grande incubo del Novecento. In quel breve periodo tra le due guerre la Germania coltivò alcuni tra i maggiori talenti del secolo, nei campi più variegati: musica, medicina, psicologia, architettura, letteratura, e naturalmente cinema. Tutti lasciarono il Paese per andare altrove ad esprimere le proprie potenzialità, salvando la propria vita a fronte di una condanna che il Reich avrebbe probabilmente comminato per “arte degenerata”, contrapposta a quella pura che la propaganda del regime utilizzava a sostegno della propria ideologia.
Arte consentita, incanalata, arte senza sperimentazione, con una creatività che doveva aderire a determinati canoni. Opere prive di autore, perché l’unico vero autore sarebbe stato il regime.
A pochi anni dall’avvento del sonoro, Fritz Lang costruisce una vicenda ancora oggi straordinaria per pathos, tagli di inquadratura, ritmo, fotografia, e insieme per la riflessione etica e il dilemma morale che la vicenda espone allo spettatore.
Nel primo film capace di raccontare la violenza sull’infanzia, Lang scelse di affrontare questo materiale giocando su inquadrature che, da sole contenevano più suggestioni di un’intera sequenza di parlato, utilizzando gli stilemi dell’espressionismo tedesco e rendendo questi virtuosismi funzionali alla drammaturgia. Le sequenze che aprono il film, precipitando subito lo spettatore nell’angoscia di una madre che non vede tornare sua figlia per pranzo, raccontano il rapimento e l’omicidio di una bambina attraverso segni estranei alla scena, metafore che espongono per sola sottrazione quanto accaduto: un piatto vuoto, una tromba delle scale silenziosa, un palloncino che si ferma sui fili dell’alta tensione prima di volare in cielo. Nessuna efferatezza ma al contempo nessuno sconto narrativo: la violenza arriva decisa attraverso l’esposizione di simboli di innocenza, sottratti a chi avrebbe dovuto tenerli con sé.

Il killer sembra introvabile, e la polizia non sa come muoversi se non setacciando la città e bloccando di fatto le attività criminali più ordinarie. Così la malavita si organizza e, attraverso una rete di mendicanti, si mette a caccia dell’omicida. Lo troverà, marchierà il suo cappotto con la “M” di Mörder (assassino) e finirà per stanarlo nella vecchia fabbrica in cui si era rifugiato. Infine lo trascinerà in una cantina dove, al cospetto di tutti i delinquenti della città, verrà processato per i suoi crimini.

Qui, in una delle sequenza più straordinarie della storia del cinema, il mostro si difenderà cercando di spiegare che non era lui ad agire, ma era come posseduto da una forza estranea cui non riusciva a contrapporsi. Il tema della Giustizia (dike) contrapposto a quello della Legge (nomos), l’eterno tema dell’Antigone che si ripropone ad ogni crimine. Quale legge va applicata? L’assassino va messo a morte affinché i nostri figli possano giocare sereni nei loro cortili, oppure va curato perché malato e incapace di rispondere di azioni che non ha liberamente scelto di compiere? La legge dell’uomo è quella che tutela la comunità o quella che sottrae il condannato a commettere altri delitti attraverso un percorso di cura e rieducazione? Fino a che punto è giusto proteggere i propri figli, e quando è giusto lasciarli allontanare da sé per sperimentare il mondo -malgrado gli inevitabili pericoli che incontreranno – e consentire loro il ritorno a una base sicura?
I temi in gioco sono tanti, e non basterebbero le poche righe a disposizione per approfondirli. L’impressione, rimasta anche dopo molte visioni, è quella di un film straordinariamente attuale, che traccia con un’irripetibile amalgama di forma e contenuto il disegno di una città, delle sue paure e delle forze oscure che governano la rabbia di chi la abita.