Da dove vengono alcune delle magliette che riempiono i nostri armadi e che indossiamo distrattamente, magari per un paio di volte e basta? Quale la strada che hanno fatto per arrivare nei mercati delle città europee? In quali fabbriche, con quali mani sono state cucite?

Made in Bangladesh (Bangladesh, Francia, Danimarca, Portogallo, 2019). Regia: Rubaiyat Hossain. Interpreti: Rikita Nandini Shimu, Novera Rahman, Deepanwita Martin, Parvin Paru, Mayabi Rahman, Shatabdi Wadud.

La vita quotidiana a Dacca, capitale del Bangladesh con 15 milioni di abitanti, è una lotta per sopravvivere. Shimu ha 23 anni e lavora come operaia in una fabbrica tessile: è scappata dal suo villaggio quando era ancora una bambina e la matrigna voleva farle sposare un uomo di mezza età. Da allora ha cambiato diversi lavori provvedendo a se stessa e a Reza, suo marito, che non riesce a trovare lavoro. La vita in fabbrica è pesante, gli straordinari non vengono pagati e le operaie vivono in una condizione di sudditanza nei confronti del padrone e del suo manager, ma il lavoro non manca e finché il mercato tira nessuna rischia di restare a casa.

Dopo un incendio che ha provocato la morte di una collega, la protagonista entra in contatto con una sindacalista che le propone di raccogliere le firme delle colleghe per registrare un nuovo sindacato presso il Ministero del Lavoro. Inizierà così una battaglia per i propri diritti osteggiata da più parti: dal marito, che non appena avrà trovato un impiego le dirà di restare a casa perché non è decoroso per una donna lavorare; da alcune colleghe, che temono di perdere un lavoro che comunque consente loro di far mangiare i figli ogni giorno; e dal padrone della fabbrica, che la minaccia di licenziamento e poi chiede loro di fermarsi a lavorare tutta notte per gestire una commessa importante, che verrà comunque pagata pochissimo. Un uomo da una parte padrone incontrastato delle giornate delle sue operaie, ma dall’altra vittima di un sistema pronto a scaricarlo in un attimo se tarderà la consegna o non abbasserà ulteriormente il prezzo.

Shimu nella sua battaglia, avviata tra mille dubbi, inizia a trovare lentamente un senso. Per le sue giornate, che non si riducono in una corsa a perdifiato cercando di produrre più capi possibili; ma anche perché intravede un possibile riscatto per altre donne come lei, meno forti o meno risolute, con alle spalle storie disperate e un destino fatto spesso di matrimoni combinati o di uomini che pretendono di decidere delle loro vite.

Rubaiyat Hossain, al suo terzo film, descrive grazie alla sua protagonista una vita di doveri senza vie d’uscita apparenti, spesa in una megalopoli umida, sporca, rumorosa, dove le persone dormono per terra sotto tende improvvisate, la polizia è pronta a usare le maniere forti e il matrimonio sembra ancora l’unico rifugio possibile per una donna sola. Il ritmo è incalzante, i colori saturi, il rumore del traffico e dei telai un sottofondo costante. L’unico momento di pausa sono le camminate per tornare a casa insieme alle colleghe, quando si scambiano sogni irrealizzabili vissuti per un attimo che subito svanisce.

La paga di un mese di queste operaie equivale al prezzo di due magliette vendute nelle nostre città. E’ un film, non uno studio sociologico con dati e grafici; ma proprio per questo, perché capace di parlare la lingua della vita vera e non quella delle statistiche, di mostrare volti, espressioni, sudore e rabbia di esseri umani che hanno solo avuto la sfortuna di nascere in una terra povera, riesce a spiegare quale sia il vero prezzo  di questi capi d’abbigliamento. E’ una storia che abbiamo attraversato anche noi, in un passato quasi remoto: la lotta per un salario dignitoso, per la sicurezza sul lavoro, per un minimo di tutela. Una lotta che altrove sta iniziando adesso, con sforzi e sacrifici simili a quelli dei nostri nonni. E’ una storia vera, vissuta da una donna di nome Daliya Akter.

La battaglia di questa piccola donna si concluderà nell’ufficio del funzionario del Ministero addetto alla registrazione delle nuove organizzazioni sindacali. Sarà lì, davanti all’ennesimo sopruso, che scoprirà se è in grado di dare davvero una svolta alla propria vita e a quella di centinaia di altre donne, o dovrà invece ritirarsi, ancora una volta, davanti a una forza più grande di lei.