I PETALI TEMPORALI DELLE NOSTRE ESISTENZE
“Noi inseguiamo quello che rifugge da noi” Martin Heddger
Anche un bellissimo fiore ha la sua vita. Lo stelo e i suoi petali vivono il tempo, anche differente, che è dato loro a disposizione da madre natura.
Per l’uomo il discorso è altro. Lui “percepisce” il tempo, reagendo, quando può, ad esso.
Anderson ha fatto proprio questo. Ha strutturato la sua opera con dei petali esistenziali variegati, ma che trovano nella loro differente percezione del tempo il senso della loro esistenza. Ed inoltre ha ideato uno stelo baricentrico alle loro vite : un quiz televisivo di enorme successo, dove si fronteggiano adulti e bambini, quale fantasma della vita comune.
In Magnolia padroneggia su tutti il tempo del rimorso e del rimpianto, che è un tempo in ogni caso voluto, anche se spesso non consapevole. Nei rapporti sentimentali, ed affettivi, chi sa che deve lasciare a breve questa terra ha fretta di fornire un chiarimento, forse ottenere un perdono. Ma è conscio degli attimi che gli restano.L’altro di fronte a Lui, spesso molto più giovane, soffre la rabbia, l’angoscia e la disperazione di vivere troppi, troppi anni senza essere riuscito a confessare, ammettere, giustificare, quello che aveva dentro. Gli esseri umani hanno una concezione strana del proprio tempo: è il bene contemporaneamente più prezioso e più scontato.
E questo spiega gli opposti atteggiamenti, nel film, dei padri, come di Jimmy o Earl, ambedue malati terminali e legati al mondo dello spettacolo e dei rispettivi figli, Franz, autore di un proprio bizzarro show, e di Claudia, cocainomane, che da tantissimi anni vivono un rapporto di rottura con i propri genitori; ma anche di Linda, moglie di Earl, donna fortemente depressa dal rimorso del rapporto instaurato con il marito morente.
C’è poi il tempo della fama e del successo in Magnolia, e della nevrotica necessità di preservarlo sempre ai massimi livelli, di non lasciarlo, evitando che si tramuti nel tempo della sconfitta e della vergogna che ti fa precipitare nel dimenticatoio umano e mediatico. Questo è quello del morente Jimmy, presentatore televisivo di “What do Kids Know?” che non vuole tuttavia lasciare il palcoscenico; di Stanley, il piccolo geniale concorrente del suo show condizionato violentemente dal proprio padre che cerca in Lui quella visibilità che come essere comune non avrebbe mai potuto ottenere. Ma Stanley è semplicemente un bambino molto colto, gettato in un mondo che non riconosce come suo. Ed infine anche di Donnie, licenziato dalla sua ditta, e vincitore quando era bambino proprio di questo show, poi caduto in disgrazia.
Viene poi rappresentata la natura dell’attimo involontario, spesso infinitesimale, neanche percepito dall’uomo, ma che può decidere il suo destino. Quello che può fare passare un suicido in omicidio, come nella incredibile storia iniziale di Magnolia.
C’è anche il tempo, questo riflessivo, pacato, delle persone gentili, sensibili, che resteranno per tutta la loro vita anonime, sconosciute, e che si dedicano talvolta al prossimo, aiutandoli concretamente, come Phil, il dolce ed emozionante infermiere di Earl, o come quello del bimbo rapper di colore che salverà dal suicidio Linda; o ancora di Jim, che vuole solo affetto e lo troverà in Claudia.
E poi, infine, c’è il tempo divino, anzi, della rabbia suprema, quella delle dieci piaghe del primo testamento, vendicatrice, livellatrice, insofferente nei confronti della stupidità e malignità umana, qui impersonato da una pioggia incessante di rane dal cielo, e che, rappresenti una metafora o meno nell’idea di Anderson, è direttamente percepita come gli altri “tempi” dell’universo umano che ha posto per secoli la religione, quindi l’irrazionale, a fondamento della propria azione quotidiana.
Qual è lo stelo di queste dinamiche relazionali, orizzontali e verticali, dove il tempo scandisce il loro percorso? Andrerson ha scelto un quiz televisivo, quindi un box conflittuale, perno di petali di vita vissuta, reale, concentrati nei loro spazi ma pienamente intercomunicabili ed interdipendenti tra di loro.
Ogni scena è legata ad un’altra, così come i gesti, le emozioni, o gli ambienti, o le atmosfere, anche musicali.Le porte si aprono e si chiudono in questo struttura diegetica circolare. Ma Anderson va oltre. Li fa incontrare anche se non si conoscono, li fa passare vicino in una stessa strada, come se anche le diversità temporali fossero in ogni caso saldate da atteggiamenti umani universali: paura, timore, angoscia, rabbia, cinismo, dolcezza, sono i figli emotivi e corporali del nostro tempo, e toccano tutti.
Come se fossero le emozioni ad aleggiare nell’aria e a scendere nei corpi degli uomini, conformandoli, e non il contrario.
E nella vita reale come nello show, vige un solo precetto dell’epoca moderna: scopo dell’esistenza non è vivere ma vincere. Chi non segue questa regola, viene emarginato.Così Anderson ha eretto la nostra babilonia esistenziale. Tutti i suoi personaggi sono vivi, possenti, reali, mostrano le loro nudità, i loro profili caratteriali più reconditi, celati. Sono persone ed attori, specularmente.
E tra questi vorrei soffermarmi solo su uno, ma che racchiude in sé tutti i tempi sopra descritti. Quello di Frank, T.J. Machey, figlio del morente Earl, maestosamente interpretato da Tom Cruise.Frank ha ideato e conduce uno show, “Seduci e distruggi”, dove, animale eccitato, spiega come stregare una donna. Ipermisogino, orgasmico nei movimenti, volgare, soprattutto sicuro di sé, Frank vuole idealizzare l’uomo che vorrebbe possedere tutte le donne, ma che non è capace di farlo perché non si ritiene all’altezza. Ecco perché esiste Frank, il salvatore.
Ma la sua sicurezza cede di fronte ad una semplice intervista, anzi di fronte ad una domanda: chi erano i tuoi genitori?Frank era stato anche un ragazzo normale, abbandonato dal padre e vicino alla madre malata di cancro. E il suo sguardo impietrito lo palesa. Il passato ritorna.Qui Frank viene colto progressivamente da due stati psicologici. Il primo la rabbia, che non lega alla sua gioventù ma a qualche cosa che Lui reputa ancora più importante: il mancato riconoscimento di quello che è diventato. L’Homo Eroticus, il pornomane televisivo: un Dio terreno, e quindi per buona parte dell’umanità, Dio. Cosa c’entra il mio passato???Sono qui, sono l’ideatore di uno spettacolo che dà un senso alla anonima vita degli uomini.
E’ stupenda la scena della sua intervista, perché spersonalizzata rappresenta l’essenza del rapporto uomo-media. Ai consumatori, una volta fagocitata, assorbita e defecata la tua immagine televisiva, interessa chi c’è dietro l’apparenza.Poi la rabbia si trasforma in angoscia, una volta a conoscenza che il padre odiato sta morendo. Ma è diversa dall’angoscia della sua matrigna Linda che ha realizzato che sta invece spirando l’uomo che ora scopre di amare ma che ha sempre tradito.L’esito dei due identici stati d’animo tuttavia è identico. Il superamento della barriera che ostacolava il ritorno dal proprio inconscio del rimosso, sarà fatale: Linda cercherà di suicidarsi, Frank crollerà davanti al padre morente confermandogli il suo odio. Le vite dei loro cari e quel lumicino di tempo che era rimasto per colmare il proprio vuoto, non li hanno salvati.
Morale di questo capolavoro del cinema mondiale di oltre 3 ore??? “Noi inseguiamo quello che rifugge da noi”.Grazie P.T. Anderson.
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