«Un posto dove ti pagano 1000 dollari per un bacio e 50 centesimi per la tua anima». (Marylin Monroe)

Appare ironico che, per accontentare il sogno visionario di uno dei più grandi registi della contemporaneità di raffigurare il cinema di ieri, ci sia voluto il massimo finanziatore di oggi. Stiamo parlando di Mank di David Fincher e padre, e di quella macchina a cui piace spacciarsi per il distributore di sogni contemporaneo che è Netflix.

In Mank c’è tutto di Fincher, come c’è tutto di quella Hollywood della Golden Age che nessuno di noi sa veramente cosa sia.

L’ossessione per l’origine delle cose, il Male che tutti viviamo, l’ombra che muove i fili di un’anima che pensiamo di assoggettare al nostro volere senza renderci mai veramente conto di quanto vero e pericoloso sia il contrario, è ciò che muove il film.

Mank è un’opera che parla di Hollywood e della sua operazione mitopoietica, creatrice della fede nel sogno americano. È la grande illusione che viviamo da sempre, l’arte bella e impossibile che, specchiandosi, riflette un’immagine destinata a consumarsi nell’eterno tentativo di rimandare all’unica vera dea, Venere, dimenticandosi che, sin dagli albori dei tempi, identificarsi con gli dei può portare alla morte.

Fincher è riuscito, dopo vent’anni, a partorire una pellicola che ci trasporta indietro sino alle origini di una Hollywood che non ha mai perdonato nulla, parafrasando una gloriosa Swanson in Viale del Tramonto: il cinema è ancora grande, è l’immagine che è diventata piccola.

Mank presenta il genio autodistruttivo di Herman J. Mankievicz, sullo sfondo di una Hollywood degli anni ’30, fra business e menzogne: uno sceneggiatore tanto alcolizzato quanto acuto e talentuoso (che poi, perché per essere visionari sia necessario condurre un’esistenza a livelli di coscienza perpetuamente alterati non si capisce, maledetto genio creativo che crea l’esterno e distrugge l’interno). Al centro troviamo una gamba rotta, il whisky e una stenografa per scrivere il miracolo di Quarto Potere che, dimenticandosi del genitore biologico, ha riconosciuto la sola paternità a Orson Welles.

Ecco la prima grande illusione hollywoodiana: credere di essere i proprietari di ciò che si crea, nutrimento della sottile follia di chi il cinema lo respira e di chi lo esercita. L’opera d’arte che nella socialdemocrazia della Hollywood del tempo, udite udite, non era di “sinistra”, viene fagocitata da un sistema che è in crisi da sempre e lo sarà per sempre, in una danza fra storia e utopie che si mescolano nel gran vaso di nequizie che è Hollywood.

In Mank Fincher cavalca un lunghissimo piano sequenza in cui seguiamo Louis Mayer (niente di meno che la seconda “m” della MGM) che entra in un teatro di posa, luogo perfetto per illudersi del possesso di corpi nell’estremo e violentemente svelato tentativo di nascondere il vuoto di una realtà che non risparmia nessuno.

Lusso, sfarzo, appartenenza a un mondo incredibilmente anelato per poter accettare che non esista, si schiantano con un boato assordante contro la verità della vita: la difficoltà finanziaria che alita sull’oro è un ossimoro che prende forma concreta, ed è magistralmente condotta in una scena che da sola vale il film.

Mayer che chiede ai lavoratori di Hollywood di tagliarsi lo stipendio perché la gente non ha più soldi per andare al cinema, è come svegliare un sonnambulo con la vuvuzela dicendogli che il Brasile ai mondiali non ci è nemmeno mai stato!

Film pienissimo, ambiziosissimo, stratificatissimo, apparentemente liberissimo, così come Hollywood stessa. Un sontuoso bianco e nero che riesce a colorare gli schermi di Netflix che qui sembra quasi voler rubare lo scettro alla grande madre del cinema, che è Hollywood. Ma attenzione, perché se gli archetipi esistono, allora l’inconscio collettivo di tutte le grandi madri, messe letteralmente in scena da Hollywood, non lascerà andare i suoi “pargoli” tanto facilmente.

Non scherziamo con il fuoco, perché se è vero che il cinema sta soffrendo e Hollywood non è esente dal calvario della realtà, pur essendo quest’ultima la sua kryptonite, è altrettanto vero che la madre della fabbrica dei sogni tesse in silenzio la sua tela in un reinventarsi continuo, in crisi probabilmente dalla fine del cinema muto, che non mostra un segno dei graffi subiti. Come una bellissima donna che ha stretto un patto con il diavolo per l’eterna gioventù, così ammalia, dirige e orchestra più in profondità di quello che ognuno di noi pensa di sapere.

La pellicola di Mank scatta e crepita, si brucia per finta, esattamente come Hollywood.

C’è da chiedersi chi tradisce chi, in un mondo di inganno e manipolazione che Fincher ripercorre in tutta la sua illusione, di una Hollywood che si fa strada in mezzo a una solitudine coltivata quasi come una vendetta di chi ha provato a piegarla sotto l’inflazionatissima espressione di “industria culturale” con l’arrogante presunzione di saperla “domare”.

Una fabbrica di sogni infranti in cui Fincher riconosce la ricostruzione e la nostalgia per un passato che non c’è probabilmente mai stato, che vive del profumo di un arrosto che, dietro il fumo, non esiste.

È il racconto di un cinema che, fabbricando sogni, sogna anche se stesso forte della straordinaria capacità di sapere esattamente dove lo spettatore sta guardando. Perché in fondo guardiamo tutti in un’unica direzione: quella del riconoscimento individuale.

Ed ecco la seconda grande illusione, che i due esponenti della Scuola di Francoforte in Dialettica sull’Illuminismo (1947) – Adorno e Horkeimer – nella loro critica alla società hanno reso indubbiamente chiaro e limpido: si accomodino tutti coloro la cui vita individuale diviene pura funzione delle forze oggettive che governano la società di massa, così come l’anima di chi inconsapevolmente si trasforma in schiavo di Hollywood diventa un burattino gettato nel fittizio mondo del puro consumo.

L’industria culturale, in quanto alienazione della cultura nella sua assenza di riflessione critica e riduzione a mera merce di consumo, ha effettivamente trovato in Hollywood uno dei terreni più fertili che ci siano per piantare il seme del trionfo di un sistema collettivista e socialista in cui le relazioni inter-umane si riducono a pura apparenza. Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, avrebbe detto Walter Benjamin, la fabbrica dei sogni di Hollywood si svela essere fabbrica di uomini, di desideri ideologicamente orientati, funzionali alla costituzione di una cultura di massa a-critica e dominabile.

Ma la cosa più affascinante, signori e signore, è che non possiamo farne a meno. Perché ognuno di noi, animato dai propri principi idealisti può gridare allo scandalo di anni e anni di burattinai, ma la luminosità che emana la fabbrica dei sogni sarà sempre come il miele per le api, come la luce per le zanzare, calamita creata da noi stessi per sfogare tutta la potenza e la necessità dell’illusione!«È morto senza credere a niente, dev’essere stata una cosa spiacevole», dicevano in Quarto Potere. Beh, in Mank si crede eccome, si crede ancora e nonostante tutto, in una Venere chiamata Hollywood.