Me Too (Titolo originale: Ja Tozhe Hochu, Russia, 2012). Regia: Aleksey Balabanov. Interpreti principali: Yurii Matveev, Alexander Mosin, Oleg Garkusha, Alisa Shitikova
Una società post-qualcosa procede tumultuosa verso la ricchezza per pochi fortunati, la parola oligarca perde la coloritura greca, da liceo classico, per assumere un’aura più prosaica, di denaro ottenuto in maniera opaca e in poco tempo.
E gli altri, quelli che sono rimasti indietro? Perché artisti, o con laurea in filosofia, o privi di un’attitudine aggressiva e spregiudicata? O perché anziani, o abituati a muoversi ai margini della legge? “Voglio anch’io”, questo il titolo che darebbe una distribuzione italiana a questo film, tenta di rispondere a questa domanda con una vicenda scandita da tre distinte fasi: la costruzione di una squadra con un obiettivo comune, il viaggio verso la meta, l’epilogo.
Un Criminale e un Musicista si incontrano in una sauna e decidono di raggiungere il Campanile della Felicità, che si trova tra San Pietroburgo, dove inizia il film, e Uglič. Da tempo nella città baltica si vocifera di questo luogo mitico, che molti hanno provato a raggiungere ma dal quale nessuno è mai tornato: pare che il campanile accolga solo poche persone fortunate, mentre le altre sono destinate alla morte visto che si trova al centro di una zona colpita da un disastro nucleare. Ai due si aggiungono Matvei, un etilista che teorizza la discontinuità (“La vita è bella se si sta bene, poi male, poi di nuovo bene”), il suo padre anziano, e Alisa, una prostituta raccolta per strada. Tutti insieme, stipati in un SUV nero e accompagnati dalle note folk-rock di un CD inserito nel lettore dell’auto, lasciano le rive della Neva in un giorno di estate baltica e dopo un lungo viaggio raggiungono il posto di blocco oltre il quale si accede alla zona contaminata. Di là dalla sbarra cala l’inverno nucleare, e la strada è costellata di cadaveri (le mucche no, rimangono vive). Gli uomini procedono in auto, Alisa li insegue correndo completamente nuda nella neve. Non esiste ostacolo per chi crede fermamente nell’idea di raggiungere la felicità tramite l’unica fessura che il mondo concede.
Durante una sosta davanti a un falò verso la fine della strada i pensieri dei viaggiatori viaggiano liberi, irregolari, riproducendo istantanee di vite ai margini che una inaspettata postproduzione potrebbe però riscattare per sempre.
Il campanile esiste davvero, si trova su un’isola che si raggiunge camminando su un lago ghiacciato. Sarà questo simbolo cadente a scegliere chi accogliere e chi respingere.

Una commistione di generi e di ispirazioni pirotecnica, nell’ultimo film di Aleksei Balabanov, che si ritaglia un piccolo ruolo che potremmo leggere come suo testamento spirituale. Da un inizio western al road movie fino all’epilogo in piena fantascienza apocalittica, la vicenda assume alcune coordinate, soprattutto visive, dal Tarkovskij di Stalker (la zona morta in cui si inoltrano i protagonisti, i loro dialoghi, l’attesa dell’epilogo) ma richiama anche Ostrov (L’isola, di Pavel Lungin) per l’esistenza di un’entità capace di emendare gli errori di una vita con il semplice tocco di una mano, una preghiera, un soffio caldo nel gelo dell’ultima Thule.
Disarmonico e disomogeneo, con segmenti incomprensibilmente prolissi alternati ad accelerazioni improvvise, musica invasiva e dialoghi surreali, colpisce per il tono grottesco che accompagna la vicenda e la straordinaria fotografia che accosta lo spettatore all’epilogo. Poco prima del quale il personaggio di un regista, a sua volta in cerca della felicità, incontra i protagonisti del film.

In un cortocircuito tra finzione e vita anche Alekseyi Balabanov, pochi mesi dopo il termine delle riprese, morirà a San Pietroburgo. Il campanile che dà il titolo al film, evocato fin dalle prime scene come biglietto vincente di una riffa in cui ci si gioca la vita, costruito nel diciannovesimo secolo accanto alla chiesa di Zapogodskaya, sarebbe crollato quaranta giorni più tardi.
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