“La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso sentimento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoinganni e culmina nell’attesa delirante di una punizione”
da “Lutto e Melanconia” di Sigmund Freud” – 1915
MELANCHOLIA (2011) di LARS VON TRIER
Riflessione
Non penso che Sigmund Freud, quando scrisse “Lutto e Melanconia” nel 1915 avesse solo immaginato che un signore nato in Danimarca ideasse con un film, quasi un secolo dopo, il passaggio di tutta la malinconia della terra in un nuovo pianeta, che non poteva non chiamarlo con il nome della sua stessa sostanza. E che avrebbe distrutto il primo.
Von Trier sa bene, molto bene, che la malinconia, una delle fonti della depressione è una scissione dell’Io. L’oggetto ricercato, la causa di questo malessere che annienta l’anima e la propria misera esistenza, non è qualche cosa di innominato, fluttuante nel mondo esterno: ma è dentro di noi. E’ il non comprensibile che non va, che ricerchiamo inutilmente.
E’ quel pensiero che ci intristisce per la strada, che ci blocca in un momento di felicità, che non ci fa alzare dal letto, che ci considera colpevoli del nulla. E ci considera indegni di tutto, della vita, dell’incontro con gli altri. Per poi, dopo un poco, farci invertire completamente la rotta dei nostri atteggiamenti. Perché un’altra parte del nostro Io cerca di non accettarlo, non ci sta. Ma purtroppo, come diceva Freud, quello che predomina nel Super Io è una “sorta delle cultura pura della pulsione di morte”.
E’ lo scontro, la collisione, tra due zone della nostra psiche che Von Trier personifica in due mondi, scegliendo non il loro contemperamento, ma alla fine ed inevitabilmente, che uno annienti l’altro.
L’apocalisse di Melancholia non scaturisce dall’insano (ed insanabile) comportamento dell’homo sapiens. Non è causata da qualche cosa di oggettivo, una guerra nucleare, un’epidemia planetaria, o altro. Ma paradossalmente, nel genio visionario di Von Trier, è proprio provocata da una entità simile alla terra, la più tangibile, la più vera: un pianeta identico ad essa. La stessa terra, che sdoppiandosi nella sua natura pensante, annienta sé stessa e tutti i suoi abitanti.
La storia di Justine e Claire, sorelle come i due pianeti, è un corollario dell’opera. Ma essenziale, portante. Perché, nella progressiva e speculare inversione del carattere delle due donne proporzionale all’avvicinamento di Melancholia, Von Trier vede la diversa reazione dei soggetti rispetto al trauma del Reale.
Justine si sposa nell’intima convinzione che quel “si”, quell’affermazione simbolica e convenzionale, non durerà una notte intera. L’ambivalenza lascerà il posto ad un no. Claire, è diversa, sana, ben inquadrata nella sua quotidiana vita borghese, ed aiuta, per quello che può, la sorella. Ma l’evento dell’avvicinamento di Melancholia invertirà i due atteggiamenti, “normalizzando”, rispetto agli estremi impulsivi, Jiustine, rendendola pacata, lucida, e facendo invece precipitare nell’inferno del terrore Claire.
Ancora una volta Von Trier ci fa toccare, con mano, anche se nell’estrema e mortifera forma della depressione, la sublime potenza dell’inconscio, di quello che non appare, che non viene esteriorizzato, ma che è fondamentale per strutturare la nostra soggettività, spesso troppo imbrigliata in un Io rigido, e quindi, come tale, innaturale rispetto agli stessi impulsi umani.
Il regista danese dichiarerà che questa sua opera nasce dalla sua esperienza depressiva: e quindi, per noi spettatori la conferma che spesso la follia produce il genio.
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