REGIA DI ANDREA SEGRE (2020)

Dal fondo del mio avvenire,
durante tutta questa vita assurda che avevo vissuto,
un soffio oscuro risaliva verso di me
Attraverso annate che non erano ancora venute.
(Albert Camus, Lo straniero)

La isole Kiribati sono un arcipelago disperso a cavallo dell’equatore nell’oceano indiano, quello che causa lo zig-zag della linea del cambio di data. E’ uno Stato minuscolo, centomila abitanti sparpagliati su 33 atolli. La Biennale Arte del 2019 ospitò a Venezia il padiglione della Repubblica di Kiribati. Si trovava in una piccola stanza a Palazzo Mora in Strada Nuova: da un lato, al di là di una transenna, della sabbia e sopra un’installazione video con canti popolari. Ma ciò che colpiva erano altre immagini: sopra alcuni schermi alle pareti erano state montate piccole finestre di legno, in modo che ciò che si vedeva sullo schermo simulasse il colpo d’occhio dalla finestra di casa. Oltre il cui vetro il livello dell’oceano saliva lento e inesorabile.

Queste isole stanno scomparendo, lentamente, a causa dei cambiamenti climatici. Prima della fine del secolo gran parte degli atolli saranno sommersi, e la popolazione avrà dovuto abbandonarli per cercare nuove terre. Nemmeno wikipedia ne parla: quello della Biennale 2019 è stato uno dei pochi sguardi gettati su questa realtà.  

Il 12 novembre 2019 l’Acqua Granda colpì Venezia con una marea eccezionale che superò i 180 centimetri, sommergendo l’80% della città: stavolta non era una piccola installazione, ma le telecamere di tutto il mondo a raccontare l’acqua che sale.

Tre mesi dopo, nel febbraio 2020, Andrea Segre si trovava a Venezia per lavorare a due progetti quando fu sorpreso dal lockdown. La monocoltura del turismo scomparve come per magia e la città si svegliò vuota. Il vuoto promosse i ricordi, i ricordi la memoria, la memoria approdò al padre Ulderico, veneziano, professore di chimica e fisica, uomo di grandi interessi e altrettanto grandi silenzi.

Una lettera al padre scritta da Andrea e rimasta senza risposta, e una serie di filmati in Super8 emersi da un baule di famiglia girati negli anni da Ulderico, tracciano il viaggio di un figlio alla ricerca di un padre. Un percorso per terre incognite per tentare di comprendere ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere, scoprire quanto è mancato e provare a capirne i motivi, vedere al di là di gesti ordinari e frammenti di ricordo.

Poco più di un’ora di racconto in un flusso di coscienza ininterrotto, accompagnato da immagini che sembrano irreali, come il terminal delle crociere completamente vuoto: uno spazio lungo come due campi da calcio, ma fatti d’acqua, e con spalti – banchine privi di qualsiasi traccia umana.

In questo racconto di assenze emergono le testimonianze di chi si ostina a vivere ancora questa città: una giovane coppia, Maurizio (detto Caìgo, cioè nebbia), a lungo responsabile del centro maree del Comune, alcuni pescatori di moèche (piccoli granchi della laguna), una ragazza che insegna la voga ai turisti, la sua famiglia… La voce del regista arriva quasi sussurrata, e le domande che rivolge ai veneziani per comprendere cosa stia succedendo nella città vuota lasciano spazio a quelle dedicate al padre; fino a quando Venezia, i suoi canali, le calli vuote, si trasformano nello sfondo di un dialogo tra un figlio diventato padre e un padre che non sapeva rispondere al figlio.

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Ulderico studiava le molecole, gli elementi di base della vita, codici di architetture esistenziali che per avere un senso devono incontrarsi con altre strutture e prendere così vita.

Forse solo quando siamo noi a diventare padri, o madri, riusciamo a comprendere chi sono stati i nostri genitori. Uscendo dalla prospettiva di figli per assumere quella di genitori, oltre alle inevitabili difficoltà del ruolo iniziamo per la prima volta a comprendere certe scelte che ci erano sempre sembrate “contro” di noi, o di fronte alle quali comunque non ci sentivamo mai abbastanza (forti, bravi, intelligenti, decisi) agli occhi dei genitori.

Il salto di paradigma è lento, dolce come lo sciabordio dell’acqua sotto i colpi del remo. Le domande diventano lentamente ipotesi da esplorare, non più chiarimenti da esigere. L’amore di un padre può assumere diverse declinazioni, e con il tempo è forse possibile accettare che un figlio o una figlia hanno pieno diritto di cittadinanza nel mondo anche senza seguire le orme di chi li ha generati.

Come “Un’ora sola ti vorrei”, dove Alina Marazzi cerca una madre che non ha quasi conosciuto, le immagini di Andrea Segre sostengono i pensieri ma poi viaggiano per conto loro, in una sequela inarrestabile priva di filtri.

Ciò che non vediamo è spesso ciò che scegliamo di non vedere: acque che ci sommergono e che non sappiamo raccontare a nessuno, nemmeno a noi stessi, per timore che tutto possa finire. Essere padri e madri, responsabili di altre vite, ci regala la possibilità di guardare il mondo non solo con gli occhi di chi è stato prima di noi; ma anche con quelli, assorti e stupiti, di chi dopo di noi rimarrà a vivere il mondo.