Vorrei essere la mia posterità, assistere a ciò che un poeta vorrebbe farmi pensare, sentire e raccontare. (Napoleone)
Titolo originale Napoléon Vu Par Abel Gance, Francia, 1927. Regia: Abel Gance. Interpreti principali: Albert Dieudonné, Vladimir Roudenko, Antonin Artaud, Abel Gance, Suzanne Bianchetti, Pierre Batcheff, Eugénie Buffett, Annabella.
A due secoli dalla sua morte a Sant’Elena, celebrata dai versi di Manzoni dall’incipit secco come un colpo di cannone (Ei fu), la parabola storica di Napoleone continua a esplicare i suoi effetti in molti settori, il principale dei quali è forse l’assetto organizzativo e statuale di molte democrazie occidentali.
In ambito cinematografico il lascito principale è un capostipite del cinema muto che ha vissuto, dalla produzione (più di 2 anni di lavorazione, dal gennaio 1925 al marzo 1927), alla distribuzione (sono ad oggi 21 le versioni conosciute della pellicola), alle successive revisioni, una serie di vicissitudini che da sole sarebbero sufficienti a renderla un’opera leggendaria. In particolare l’attività di restauro ha occupato gran parte della vita di Kevin Brownlow, che è stato per Abel Gance ciò che Antonio Tabucchi è stato per Pessoa: divulgatore, esegeta, quasi un eteronimo. Iniziato nel 1956 grazie a due copie ritrovate per caso in un miniformato di 9.5 millimetri, il restauro è proseguito attraverso il rinvenimento di ulteriori bobine negli archivi di tutto il mondo, fino ad assembleare la prima versione restaurata, presentata nel 1990 al Telluride Film Festival, alla presenza del regista ormai novantenne; lo studioso è poi approdato al restauro definitivo, 5 ore e 33 minuti oggi disponibili in DVD e blue ray, nel 2000 (per farsi un’idea del progetto: https://www.cinematheque.fr/article/662.html).
Il film racconta la storia della prima parte della vita di Napoleone, dall’accademia militare di Brienne-le-Château alla traversata delle Alpi durante la campagna d’Italia del 1796-97, passando attraverso la Rivoluzione Francese e il susseguente Regime del Terrore. La narrazione dell’adolescenza del futuro imperatore lascia intravedere il suo carisma straordinario, lo spirito indomito e il desiderio di primeggiare, fin da una battaglia a palle di neve all’interno del collegio. Oltre alle scene di massa, cifra distintiva di gran parte dei grandi film muti, questa pellicola propone innovazioni rivoluzionarie: tra i primi a usare la camera a mano, Gance utilizzò anche tecniche sperimentali di colorazione della pellicola e tre schermi panoramici su cui venivano proiettate le immagini: ora per ampliare quella centrale, ora ad enfatizzarne il segno attraverso inquadrature di altre scene. La tecnica, che intorno agli anni Quaranta prese il nome di Polyvision, era l’antenata dell’odierno Cinerama.

Altrettanto innovativo, per l’epoca, il montaggio accelerato che asseconda la dinamicità del protagonista e la sua ascesa al potere, come l’utilizzo di ascensori per riprese a caduta veloce, mentre la componente drammatica ed espressiva di immagini prive di parole ma solo accompagnate dalla colonna sonora era una caratteristica saliente del cinema muto, così come i riferimenti pittorici. Per la morte di Marat

il regista si ispirò al dipinto La morte di Marat di Jacques-Louis David (1793).

Tutte queste novità, per l’epoca rivoluzionarie, oltre alle vicende che hanno accompagnato il film (una tra tutte, il fatto che Gance avesse concluso il montaggio a poche ore dalla prima assoluta del 7 aprile1927 all’Opéra di Parigi), finirono per sovvertire inconsciamente il piano di analisi del film. Kubrick fu tra i primi a riconoscerne la ridotta potenza narrativa, che gli appariva didascalica e ridondante, e questo a prescindere dalla durata-monstre. Sia il minutaggio che la difficoltà di allestimento hanno sempre limitato fortemente la fruibilità dell’opera fin dalle sue origini, dal momento che i normali cinema non erano in grado di allestire tre schermi. In Italia è stato proiettato solo due volte a Roma (nel 1981 e nel 2007) nei pressi del Colosseo, e una a Pordenone, in chiusura delle Giornate del cinema muto nel 2001.
Oltre ai tre schermi panoramici, la storia e l’assemblaggio di questo film ricordano il Polittico Griffoni di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, una delle maggiori opere del Rinascimento italiano. L’opera, commissionata nel 1470 da Floriano Griffoni per la sua cappella all’interno della Basilica di San Petronio a Bologna, venne smembrata nel 1725 dal nuovo proprietario della cappella e le singole tavole approdarono nelle sale di nove grandi musei in tutto il mondo. Nell’estate del 2020 sono state recuperate ed eccezionalmente esposte a Bologna in una mostra irripetibile da poco conclusa.
E cosa rimane di un film che ha avuto più versioni che visioni (almeno in Italia), di cui si è letto e scritto tantissimo? Quanto conta il contesto nell’immortalità di un’opera? Perché Eschilo e Shakespeare continuano ancora oggi ad essere rappresentati mentre infinite altre produzioni artistiche hanno vissuto solo il loro tempo prima di cadere nell’oblio? E’ sufficiente per dare una risposta fare riferimento allo spirito del tempo, escludendo ciò che oggi non potrebbe avere cittadinanza per ritmo, tensione narrativa, argomento, tecnica recitativa? Perché a 20 anni vogliamo cambiare il mondo e a 60 -tranne rare eccezioni- saremmo contenti se solo riuscissimo a comprenderlo?
Parafrasando la frase di un grande film italiano, il futuro è passato, e ce ne siamo accorti eccome. Quelle che un tempo erano innovazioni straordinarie possono apparire oggi come esercizi di stile. Certo non è possibile raccontare Napoleone attraverso la lente del minimalismo: ma al di là delle imprese che hanno sconvolto l’Europa per un ventennio c’era un uomo con un proprio mondo, e le azioni che hanno coinvolto popoli e governi ne erano la naturale conseguenza. Il cinema muto avrebbe potuto raccontarle? Forse sì: se solo guardiamo, ancora oggi, La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, uscito nelle sale l’anno successivo, ci rendiamo conto che anche con gli strumenti del muto, una fotografia espressionista, pochi quadri e pochi personaggi, sarebbe stato possibile narrare una parabola umana differente raccontando l’uomo Napoleone e non il condottiero. E, attraverso il racconto dell’uomo, provare a comprenderne il mondo.
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