(Usa, 2020). regia: Chloé Zao. Interpreti principali: Frances Mcdormand, Davisd Strathairn, Linda May, Swankie, Bob Wells, Peter Spears, Gay Deforest.

Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono; la terra resta, solo leggermente modificata. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore, dove non ci sono cuori da straziare. (Edward Abbey, Desert Solitaire)

Una troupe che gira in van attraverso alcuni Stati americani, incontrando uomini e donne che hanno scelto di vivere sulla strada, abitando nei camper che usano per spostarsi da un lavoro all’altro. Un articolo pubblicato su Harper’s Magazine (“The End of Retirement. When you cant’ afford to stop working”, https://harpers.org/archive/2014/08/the-end-of-retirement/) diventato un libro che racconta le loro storie e poi il soggetto per un film. Poi loro: persone invisibili ai nostri occhi che però esistono, vivono, lavorano, mangiano, ma senza avere una casa che faccia loro da base sicura. E una valanga di premi, da Venezia a Hollywood. Questo è Nomadland: né film né documentario, ma una tela grezza su cui uomini e donne hanno cucito, per un breve tratto, la trama delle proprie esistenze.

Il neorealismo (Visconti, Rossellini) iniziò a utilizzare attori non professionisti che vivevano la miseria del dopoguerra, Pasolini li scelse per raccontare le borgate: con loro non erano necessario togliere tutte le sovrastrutture date dalle scuole di recitazione per arrivare all’essenza di un’espressione. Sul set mettevano in scena ciò che conoscevano perfettamente. Nomandland è costruito grazie alle loro storie: Fern (Frances McDormand) ha perso il marito Bo e il lavoro da quando ha chiuso la fabbrica di Empire, Nevada, che dava lavoro a tutta la città. In poco tempo le persone se ne sono andate a cercare un impiego altrove, lasciando dietro di sé un agglomerato di case vuote, a cui è stato anche cancellato il codice postale.

Il film segue un anno di vita di Fern, da un dicembre a quello successivo, quando lavora per pochi giorni a contratto dentro un magazzino Amazon da dove vengono inviati in tutto il mondo i pacchi dei regali natalizi. In questo spazio chiuso immenso gli addetti si parlano, mangiano insieme, e i manager cercano di creare uno spirito di squadra. Passato il capodanno Fern sale sul suo furgoncino, che ha ribattezzato “Vanguard”, e inizia il suo viaggio alla ricerca di altri lavori. Le persone che incontra non sono più cowboy occupati a spostare mandrie, ma esseri umani avanti con gli anni che hanno perduto il lavoro e non possono permettersi di vivere solo della pensione.

Le relazioni tra le persone sono autentiche e di grande semplicità: ci si incontra e ci si riconosce, reduci da vite precedenti di cui si parla solo se si ha voglia. Gli spazi in cui questi nomadi contemporanei si ritrovano sono fatti di sedie pieghevoli attorno a un fuoco, di angoli dove si barattano le poche cose in più, di birre offerte e accendini regalati, di fossili da collezionare e scambiare. Non è contemplato il furto, la delusione o il tradimento. Ci si aiuta con quello che si ha, quando si può, si condivide un pranzo su una panca o un tramonto nel silenzio.

Fern per due volte ha la possibilità di fermarsi a vivere all’interno di una casa vera come ha deciso di fare Dave, un amico che vorrebbe averla vicina. Ma non ce la fa: quando è ospite di una stanza arredata, un letto vero con lenzuola fresche di bucato, si alza nel mezzo della notte per raggiungere il suo furgone e dormirci dentro.

Un lutto collettivo muove queste persone e le spinge a lavorare in un’età in cui altri riescono a raggiungere la tranquillità. Identità collettive completamente cancellate, come la città-fabbrica da cui proviene la protagonista, spingono a cercare baricentri impermanenti per dare ancora un valore alle proprie esistenze. Quando mancano le comodità cui tutti siamo abituati, il tepore del riscaldamento, l’acqua corrente, quando è indispensabile una sosta periodica alla lavasecco automatica, quando la normalità è riscaldare sul fuoco di una bombola il cibo di una scatoletta, quando le lamiere del furgone lasciano passare il gelo della notte e il water è un semplice secchio da 25 litri in cui svuotare il proprio corpo, le relazioni umane tornano ad essere quello che forse erano per i pionieri: fatte di aiuto reciproco e di fiducia, incontri brevi e poi via, ognuno per il proprio viaggio.

Amori, carriere, giochi di potere, privilegi da conquistare o salvaguardare, denaro, ego ipertrofici da tenere a bada… sparisce tutto dentro abitacoli resi fragili dalle intemperie, issati su quattro ruote scalcinate che ogni tanto lasciano appiedato il proprio driver. Si torna all’essenza, si ricordano i nomi delle persone anche a distanza di miglia e mesi dall’unico incontro.  

La regia non ha tesi da proporre, solo storie da raccontare utilizzando il filo rosso del viaggio della protagonista. Non c’è critica del sistema (capitalistico, previdenziale o sanitario) o proposta di modelli alternativi, così come manca la visione della natura alla Thoreau: nessuna presa di posizione nemmeno nella cronaca di queste giornate vissute all’aria aperta. A volte davanti a tramonti spettacolari, altre con il fondale di un cielo bigio che promette pioggia, a volte mangiando in gruppo all’aperto, altre al freddo e al chiuso del proprio mezzo, la natura non è matrigna né accogliente. La scelta di dipingerla così com’è, senza belletto da post-produzione, conferma l’idea di descriverla nella sua essenza: aurore e tramonti in cui, come nella vita vera, si fatica a riconoscere i contorni degli oggetti e ci si muove a tentoni.

La musica di Ludovico Einaudi accompagna i tanti viaggi che riprendono dopo soste tutto sommato brevi. La sceneggiatura costruita giorno per giorno, in una sorta di osservazione partecipante, racconta storie minime, drammi privati, momenti di addio. Ci chiediamo se la scelta di premiare con cinque Oscar un film così anti-hollywoodiano nel carattere, ancor più che nell’anima, sia il primo passo verso la comprensione di altri mondi o non, piuttosto la creazione di una riserva in cui farli esprimere liberamente, l’omaggio politically correct a una certa idea di diversità. La risposta, forse, si trova nell’anno appena trascorso che, come accade a Fern, ha rimesso in discussione tutte la nostra vita e aperto la porta a domande che nessuno si era ancora fatto.