Non mi uccidere di Andrea De Sica (2021)

Robin e Mirta sono giovani, belli, innamorati. Lui tende a sballarsi facilmente e, nonostante la buona influenza che lei ha su di lui, un giorno il ragazzo provoca la morte di entrambi in un violento scontro in macchina.

Dopo la sepoltura, in un contesto gotico di sicuro impatto, lei si risveglia.  Sembra il solito abusato tema degli zombie-vampiri, ma il film segue una sua linea evolutiva che lo rende unico.

Il genere serve al regista soltanto per porre gli eventi e lo sviluppo dei personaggi su un asse ben preciso, quello del non sapere più chi si è post mortem. La ragazza con addosso la veste bianca con la quale è stata seppellita, quasi a volerla ricordare per sempre in una condizione infantile e virginale, vaga stranita e disperata, ignara, almeno temporaneamente, di sé.  

Il film visivamente livido, ma illuminato da una colonna sonora struggente, parla a quella parte di noi più inerme, quella che teme la lacerazione della perdita di ciò che amiamo. E la giovane protagonista del film non ha fatto in tempo a congedarsi da nessuno, tanto brusco è stato il passaggio da una pienezza di gioia e completezza d’amore al buio della morte. Non a caso il colore predominante è un grigio spettrale che ci porta  a empatizzare da subito con Mirta e a sentire sulla nostra stessa pelle il dolore della perdita e lo straniamento del non riconoscersi.

Mirta deve nutrirsi di carne umana se non vuole sparire di nuovo. Per questo è costretta a divorare rapidamente le sue vittime, prima che muoiano perché “i morti non mangiano i morti”. Con tatto e una delicatezza mai intrusiva il regista segue i due ragazzi in frequenti flash back in cui l’amore si manifesta come una forza dal potenziale trasformativo assoluto. Lui è bello, tenebroso e dannato e la fascinazione su Mirta ha il potere dell’ineluttabilità. La ragazza, che assiste alla sua trasformazione con orrore e a cui può porre termine solo uccidendo, è una creatura diafana ed evanescente, quasi come certe eroine alla Edgar Allan Poe.

Si aggira fra i vivi, in ambienti di coetanei strafatti che ballano del tutto straniti. La sua bellezza cupa e destabilizzante sembra suscitare nei maschi un desiderio oscuro e primitivo che attiva la violenza predatoria. Magra, si perde quasi dentro una felpa che nasconde i segni più inquietanti della sua trasformazione. È talmente disgustoso il primo uomo su cui si avventa che si finisce con il parteggiare con lei. Lei ha un solo movente che la spinge a vagare e a sopravvivere, trovare l’amato Robin. Nelle sue peripezie incontrerà altri della sua specie, in un crescendo di violenza e di furia.

È un film che colpisce per la capacità di gestire gli ingredienti del genere senza cadere nei consueti cliché, e stupisce la freschezza del punto di vista, nonostante il genere sia abbondantemente battuto.

Perché alla fine si può imboccare qualsiasi strada per raccontare il disagio giovanile e quella sensazione propria dei ragazzi di sentirsi fuori posto.

Non è importante il genere con cui si decide di raccontare, può andar bene anche un fantasy così estremo, purché sia esplorato, però, con verosimiglianza il grumo di dolore e di rabbia di un cuore giovane. Perché poi alla fine il film questo racconta, la fatica di essere al mondo quando non ti senti accettato e l’unica persona che ami è quella che cerchi ma che è anche il tuo nemico. Non ci sono approssimazioni in questo film, dove il regista mostra una padronanza piena dei mezzi espressivi grazie a cui declina in tutte le sue sfumature l’isolamento struggente della ragazza, l’orrore di una rinascita e la disillusione amara. Magnifici notturni alternati ad ambienti urbani degradati e adatti a suscitare inquietudine e perturbamento sono calibrati in modo perfetto.