Nostalgia (2021) di Mario Martone rappresenterà l’Italia agli Oscar

Dalla visione del film ho fatto passare qualche giorno prima di scriverne. Perché l’emozione è stata grande e perché sin dalle prime sequenze ho avvertito una risonanza profonda. Io che da Napoli non sono andata mai via ho tuttavia avvertito tutta la carica seduttiva del sentimento della nostalgia.

Chi di noi non l’ha provata almeno una volta? È quel sentimento che, pur sfumato, fa avvertire che il legame con quello che siamo stati è solo silente, ma può riattivarsi per incanto. E incede, questo sentimento, in modo avvolgente, senza che tu te ne accorga. Per il protagonista del film il processo è lento, ma ha il ritmo, il sapore e i toni del destino. E quindi, della tragedia. Nessuno sa, una volta riaperti i legami con il passato, dove questo contatto può portarti. Lontano, alle volte, dal luogo dove vivi, che ti appaga, che dà sostanza alle tue aspettative e al tuo valore. Lui torna a Napoli dopo una separazione lunghissima. La riappropriazione è lenta e avviene all’insegna del fiutarsi con circospezione con i luoghi. Dapprima sono i colori lividi di una Napoli fatta di luci e bagliori lontani. Seduttivi ma remoti, e Felice li guarda dall’alto, appunto, della sua camera d’albergo al Centro Direzionale.

Ma giri ellittici e solo apparentemente casuali lo conducono sempre di più verso un centro, un punto focale che è anche e soprattutto dimensione materna, avvolgente. Il portone della sua infanzia, il palazzo dove vive la madre. La Napoli della Sanità, che è un mondo dove vecchio e nuovo si esaltano in un impasto vorace e pericoloso, una città potenziata nel suo dolore, nella sua violenza, nel suo utero che inghiotte Felice.

Nel basso dove vive confinata, la madre lo accoglie. È una sequenza densissima, dove rivive il legame ancestrale con la madre, contatto che si fa corpo, sostanza, accudimento. Un legame potente e prelogico, disseminato anche di omissioni. Questo mondo nel quale ci addentriamo è fatto di basso e di alto, soprattutto. Di desiderio di ascesa cui tuttavia corrisponde un essere continuamente ricacciati verso il basso.

Felice ripercorre i luoghi della sua adolescenza, dalla Sanità alla collina di Capodimonte. Nella piazza principale dove si staglia la chiesa, altro motore della storia, si vede il famoso ponte che ha definitivamente chiuso il quartiere, condannandolo a guardare a Capodimonte come a un luogo ambito e remoto. Non a caso è proprio verso il Moiariello che procediamo, ripercorrendo le scorrazzate in moto di Felice e del suo amico Oreste.

Una Napoli degli anni Settanta si ripropone a noi con l’urgenza che solo la gioventù è in grado di comunicare. È quella del protagonista, pericolosamente vicina a quella dell’amico violento e destinato al crimine. Il peregrinare di Felice/Favino altro non è che un avvicinamento progressivo al pericoloso ex amico. Nel frattempo, si salda la singolare amicizia con il coraggioso prete del quartiere che sfida la camorra e persegue il sogno di un’orchestra di giovani. In questo modo il protagonista torna insieme al sacerdote dentro le case della Sanità e dei Vergini, dove il cuore si schiude alla possibilità di una dimensione politica, oltre che umana. Nell’esperienza del teatro e della musica vive il cuore di un quartiere e insieme la consapevolezza che umanità e cultura possono essere seme, e scelta, e quindi, politica.

Man mano le resistenze, anche linguistiche, si sciolgono e il protagonista si riappropria del dialetto.

Con il sapore del vecchio western i due, Felice e Oreste, si fiutano, si avvicinano e si allontanano come in una danza.