Obet (Victim) (Slovacchia, Rep. Ceca, Germania, 2022). Regia: Michal Blaško. Interpreti principali: Vita Smachelyuk, Gleb Kuchuk, Igor Chmela, Viktor Zavadil, Inna Zhulina, Alena Mihulová, Veronika Weinhold, Gabriela Míčová, Claudia Dudová

Iryna è una madre single di origine ucraina che lavora in una ditta di pulizie di una piccola città della Repubblica Ceca. Mentre è ferma alla frontiera tra Ucraina e Slovacchia, di rientro dal suo Paese di origine, scopre che il suo unico figlio è stato ricoverato d’urgenza. Il suo pullman è bloccato per controlli, allora cerca di ottenere un passaggio per raggiungere l’ospedale il più velocemente possibile, bussando ai vetri delle auto ferme in fila in una notte di pioggia, ma nessuno sembra darle ascolto.

Quando arriva in ospedale Igor, il figlio adolescente, ha perso un rene ed è privo di sensi; al risveglio le confida di essere stato picchiato sulle scale di casa, lasciando intendere che i colpevoli potrebbero essere alcuni vicini di etnia rom con cui in passato aveva già avuto degli scontri: nel casermone grigio costruito con pannelli prefabbricati di cemento, eredità dell’edilizia popolare di epoca socialista, i rapporti di vicinato sono improntati alla diffidenza più marcata e un tentativo di chiarimento di Iryna fallisce per l’ostilità della madre dei ragazzi sospettati. Un poliziotto viene incaricato delle indagini e inizia a interrogare le persone coinvolte, ma prima che le indagini si concludano la versione della vittima inizia a circolare e arrivano sulla scena i personaggi che ne possono trarre profitto: politici locali, responsabili di associazioni, industriali. Ognuno con le sue buone ragioni: il controllo del territorio, il decoro delle periferie, la sicurezza per i ragazzi. Ma ognuno a portare avanti obiettivi personali che, pur conditi da un’apparenza compunta e bonaria, indicano come colpevoli gli ultimi degli ultimi.

C’è sempre qualcuno che vale di meno, una vittima designata che, dal canto suo, non fa molto per modificare l’inerzia della narrazione. Un rom è un immigrato di serie B perfetto per incarnare le paure degli abitanti, rassicurati invece da Iryna: forse perché bianca, o integrata, o perché parla meglio la lingua locale e i suoi piatti non appestano le scale del palazzo. Iryna vorrebbe solamente realizzare il proprio sogno di aprire un salone di parrucchiera insieme a un’amica, ma rimane incastrata in una narrazione più grande, fino ad approdare su un palco dove centinaia di persone le esprimono una solidarietà che lei, avendo scoperto la verità da suo figlio, sa di non meritare.

Quando è a un passo dalla realizzazione del suo desiderio, e una donazione le consentirebbe di realizzarlo, capisce che non è quello il modo in cui avrebbe voluto diventare una cittadina del paese che la ospita. Ma è troppo tardi, la macchina si è messa in modo e anche i suoi piccoli gesti di solidarietà, le scuse che presenta alla famiglia rom, non hanno modo di fermare il corso degli eventi. Così, mentre lo schermo inquadra visi di tutte le etnie, intenti a superare il test per ottenere la cittadinanza, e poi cantare l’inno nazionale del Paese che finalmente li ha riconosciuti come figli acquisiti, Iryna capisce che anche la sua nuova casa non potrà essere quel nido rassicurante che aveva tanto sognato.

Forse è lei la vera vittima: quella che aveva creduto che il lavoro, l’onestà, la capacità di scusarsi, fossero strumenti adeguati per essere accolta a pieno titolo in una comunità migliore rispetto a quella che aveva lasciato. Ma come alla frontiera nella prima scena, anche nella sala pubblica in cui si consegna il tanto agognato diploma di cittadinanza rimane bloccata: in quella terra liminale in cui non si è più quelli di prima, ma non si è ancora quelli che vorremmo essere, scopre che il traguardo appena raggiunto non la renderà felice, e che la strada da percorrere, una strada sconosciuta e piena di insidie, è destinata a continuare.