Siamo noi a scegliere i ruoli o sono loro a scegliere noi?
Orange Is the New Black è una serie televisiva americana trasmessa su Netflix e ispirata alle memorie di Piper Kerman: “Orange is the new black: my year in a women’s prison”che racconta le vicissitudini e le dinamiche comportamentali all’interno di un carcere femminile americano.
La protagonista principale, Piper Chapman, è una donna che risiede a New York e che viene condannata a scontare quindici mesi di detenzione nel carcere femminile di Litchfield, una struttura penitenziaria gestita dal Dipartimento Federale di Correzione, per un “crimine” avvenuto dieci anni prima, quando Piper aveva trasportato una valigia piena di soldi, di provenienza illecita, di una trafficante internazionale di droga della quale un tempo era stata l’amante di nome Alex. Durante il processo a suo carico e prima della condanna, Piper riesce a costruirsi una vita agiata, rispettosa della legge, nell’alta borghesia newyorkese con il suo nuovo fidanzato Larry Bloom. [Da wikipedia]
Appena la protagonista entra in carcere, siamo catapultati in un contesto violento dove assistiamo alla trasformazione psicologica di Piper da “brava ragazza” a “bad girl”. Ogni personaggio della serie, dalle detenute alle guardie, fino al personale direttivo, è caratterizzato in maniera fortemente psicologica e, alla fine, riesci ad affezionarti a quasi tutti i personaggi… anche il più “cattivo”.
Dietro le sbarre Piper incontra nuovamente Alex, la donna con cui ha avuto una relazione e che l’ha fatta arrestare dalla quale, nonostante un iniziale rancore, si sente ancora attratta da un legame molto forte. Il contrasto tra la “biondina” e la “mora” funziona in questo contesto soprattutto perché le due donne, oltre che diverse dal punto di vista fisico, sembrano complementari nel carattere ma attratte l’una dall’altra in una continua dinamica affettiva e sessuale di tira e molla.
La scelta registica di mostrare attraverso brevi flashback il passato di Piper e degli altri personaggi, il loro vissuto infantile o adolescenziale fuori dal carcere, è la chiave di lettura psicologica che ci fa affezionare, come spesso accade anche nella vita, dei perdenti, degli emarginati, dei “diversi” e delle loro fragilità. Questo trucco cinematografico permette allo spettatore di immedesimarsi nella storia di ogni criminale e di comprendere come il “bene” e il “male” possano convivere in ognuno di noi e quanto spesso le nostre azioni e le nostre scelte non sono dettate dal libero arbitrio ma da forze inconsce o situazionali più forti di noi che dirigono il nostro comportamento e le nostre scelte.
Potenzialmente siamo tutti “criminali”?
Torniamo indietro nel tempo, nel 1971, all’esperimento di psicologia sociale da cui sono stati tratti ben due pellicole americane, condotto da un team di ricercatori diretto dal professor Zimbardo della Stanford University. Questo esperimento, criticato per molti aspetti etici e metodologici, può essere utilizzato come esempio del comportamento umano all’interno di una società in cui gli individui sono definiti soprattutto dal loro gruppo di appartenenza e guidati dalle dinamiche dei gruppi sociali. Esattamente come accade nella serie Orange dove tra le stesse carcerate c’è il bisogno urgente di trovare una propria identità che non sia solamente quella della detenuta ma anche, per esempio, di far parte del gruppo delle nere, delle bianche o delle ispaniche. Di decidere chi essere in quel nuovo contesto.
Partendo da questa ipotesi di ricerca, nell’esperimento di Zimbardo, l’assegnazione ai volontari che accettarono di parteciparvi nei ruoli di “guardie” e di “prigionieri” all’interno di un carcere fittizio riprodotto nell’Università di Stanford, produssero delle conseguenze comportamentali in base al ruolo assegnato portando a una violenza cieca nei confronti del ruolo opposto. Gli inattesi risultati ebbero però dei risvolti così drammatici da indurre gli autori dello studio a sospendere la sperimentazione. Solo dopo due giorni, dall’inizio dell’esperimento, si verificarono i primi episodi di violenza tra i due gruppi nonostante in nessuno dei volontari fossero presenti, all’inizio dell’esperimento, dei profili psicopatologici o diagnosi di disturbi della personalità.
Erano persone “normali”. Ma se il male fosse la “normalità” nell’essere umano?
Quando Piper entra in carcere impara, sulla sua pelle, che in quell’ambiente non hai molta scelta: o sei “preda” o sei “carnefice”. Come ci insegna la filosofia e la psicoanalisi il male è una parte integrante di noi. Lo psicoanalista C. G. Jung scrive: “Nessuno sta fuori dalla nera Ombra collettiva dell’umanità. (…) sarà quindi bene avere una “immaginazione del male”, perché solo gli sciocchi possono trascurare a lungo le premesse della propria natura.”
Quello che più mi ha colpito nei personaggi della serie, oltre la loro sofferenza durante la prigionia, è proprio il loro vissuto, le loro emozioni, i loro ricordi, la loro fragilità e forza al tempo stesso che le obbliga in quel ruolo a fare scelte spesso scomode, istintive, e contro la loro stessa “natura”. La programmazione culturale ci ha insegnato a dividere rigorosamente il “bene” dal “male” all’esterno della psiche ma la domanda di fondo che forse anche il regista stesso si è posto è: “sono quello che sono perché l’ho scelto o le circostanze hanno scelto per me chi devo essere?”
Quasi tutte le storie, nella serie, delle detenute come quelle delle guardie ci vengono mostrate all’interno di un sistema sociale, quello americano, in cui alle spalle di ogni individuo c’è spesso un vissuto fatto di violenza familiare, povertà, e di privazioni. Il bene e il male, in questa serie, non sono nettamente separati ma, come viene rappresentato nel simbolo cinese del TAO, troviamo un po’ di “bene” in ogni detenuta e un po’ di “male” in ogni guardia e assistiamo all’evoluzione di ogni personaggio che in base alle disposizioni del suo carattere, risponde alle dinamiche esterne “obbligato” a dover scegliere tra ciò che è bene e ciò che è male per lui in quel momento.
Ma è veramente una scelta?
In fondo, anche se non ci piace ammetterlo, non siamo poi così diversi da questi personaggi e la serie ha successo proprio perché ci mostra in maniera diretta, come un pugno nello stomaco, quanto spesso le nostre ferite emotive e i relativi vissuti di abbandono, di rifiuto, di umiliazione, di tradimento o di ingiustizia una volta risvegliate, stuzzicate, riaperte ci predispongono al nostro incontro personale con determinate emozioni, reazioni e comportamenti.
Quel male, che se non viene accettato ed elaborato, viene relegato nell’inconscio assumendo la forma dell’Ombra, l’archetipo junghiano, e proiettato sugli altri come meccanismo di difesa. Come ci ricorda sempre Jung: «L’incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante. Chi è in condizione di vedere la propria ombra e di sopportare la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito.» Il confine tra il bene e il male, come ci ha dimostrato l’esperimento di Zimbardo, è sottile ed è spesso condizionato dai ruoli che ci vengono imposti dalle strutture sociali o dalle nostre dinamiche inconsce. Lo vediamo nel percorso di Piper ma anche di altre detenute continuamente in conflitto con il proprio ruolo e con i ruoli degli altri personaggi.
Che ci piaccia o no siamo tutti all’interno di un grande teatro, un set cinematografico, in cui i nostri ruoli vengono condizionati da una società sempre più violenta e psicopatologica che è allo stesso tempo la proiezione ingigantita della nostra psiche individuale. Proprio come accade ai personaggi della serie, che diventano il riflesso dei nostri personaggi psichici, non riusciamo a vedere e ad accettare quanto spesso la rabbia, l’odio, il rancore che abbiamo accumulato dentro di noi vengano proiettati sugli altri attraverso comportamenti violenti.
Come ci ricorda il saggista e psicoanalista James Hillman il lessico della psicopatologia è la psiche, ed è questa psiche che soffre perché sente crollare intorno a sé il mondo. E questo mondo soffre a sua volta perché prende coscienza lentamente di essere parte di questa sofferenza manifestando il proprio dolore come aveva già predetto Freud nel “Disagio della civiltà” del 1929. Hillman ci propone di mettere sul lettino dell’analisi non solo il singolo individuo ma le istituzioni e le strutture sociali ponendosi una domanda: “se non fosse solamente l’uomo a rovesciare le sue patologie sul mondo ma fosse anche il mondo a rovesciare su di noi il suo disagio?” Per Hillman non è solo il soggetto, l’individuo, ad avere un’anima che soffre, ma anche il mondo ha un’anima che soffre. E se l’individuo ha bisogno di essere curato allora anche il mondo necessita di cure.
Il compito che ci viene chiesto di svolgere, attraverso le immagini di questa bellissima serie, è probabilmente quello di accettare la possibilità che il male possa albergare dentro di noi e intorno a noi, che non significa non contenere anche il bene e combattere per esso ma prendere atto che queste due dimensioni non sono due entità contrapposte ma due forze autonome, due energie archetipiche, che dialogano costantemente tra loro per condurci a diventare esseri umani più consapevoli in modo da prenderci cura di noi stessi, degli altri e dell’ambiente intorno a noi.
Accettare il male non significa quindi giustificarlo o alimentarlo ma osservarlo pienamente nel suo dispiegarsi probabilmente come “necessità” per la presa di coscienza individuale e collettiva. E in questo percorso Piper e ogni personaggio della serie, diventano l’esempio incarnato dello stesso “male di vivere” che ci chiede di confrontarci continuamente con le nostre immagini interiori e quelle esteriori, con la violenza, la povertà, la malattia, la disoccupazione, la morte imparando progressivamente a non essere vittime del nostro passato fissandoci in un solo ruolo ma a saper “recitare” consapevolmente diversi ruoli senza identificarci in nessuno di essi. Questa possibilità ci è data proprio dall’incontro con l’altro perché come ci ricorda sempre Hillman nella sua opera “Il mito dell’analisi”: “…è impossibile conoscere se stessi riflessivamente… Possiamo rivelarci a noi stessi attraverso un altro, ma non possiamo riuscirci da soli…. Abbiamo bisogno di rapporti del tipo più profondo attraverso cui realizzare noi stessi, rapporti dove è possibile l’autorivelazione… nell’analisi, nel matrimonio e nella famiglia, o tra amanti o amici.” e, aggiungo io, anche tra “nemici”.
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