Quando il politicamente (s)corretto invade la libertà individuale

“So chi sono, so in cosa credo e da qui inizio a fare ciò che devo fare” Will Smith

Gli Oscar sono un po’ come il nostro Sanremo, li anticipano una scia luminosa di critica, cinismo, dissacrante tuttologia ed esasperante attesa. 

Come una profezia che si auto avvera, accade sempre qualcosa che li consacra senza possibilità di replica a quella pungente ape regina che è la memoria. 

C’è sempre un accadimento che nel tempo riporterà la mente indietro, non importa se non ci ricorderemo esattamente gli anni, ma la circostanza, quella si, sarà indelebile dentro di noi. Tutto questo grazie ad un unico, impattante evento che solitamente si crea, realizza e spegne in pochissimi minuti. 

Ecco, gli Oscar 2022 saranno ricordati per la cinquina di Will Smith a Chris Rock alla pari di quel colpo di testa (in senso letterale, non figurato come quello del Principe di Bel Air), di Zidane a Materazzi. 

Diciamocelo, è un po’ che l’Academy e le sue scelte socio-politiche fanno discutere, spengono ardore e sentimento come farebbe un appassionato amante se cominciasse a parlare di tutte le donne che ha avuto! Tutto questo politicamente corretto non ha incentivato il rispetto, al contrario ha permesso a tutti di nascondersi dietro falsi miti e obsolete convinzioni secondo cui sia permesso esprimere ad alta voce qualunque pensiero purché travestito da: “Ma era solo uno scherzo”! 

Ora, va da sé che la violenza non sia mai giustificabile né tantomeno vada accettata nonostante le provocazioni, ma come per ogni aspetto della nostra quotidianità, ci sono sempre due facce della stessa medaglia.

Ma cos’è successo allora a Will Smith domenica notte? Cosa lo ha reso puro agito dimenticandosi la parte agente? 

Partiamo da un dato di fatto: al cinema non esiste interazione reale, tutto avviene nella mente dello spettatore tramite meccanismi di proiezione su personaggi di finzione, non su persone reali. Allo stesso modo, il personaggio interpretato funge da contenitore delle proiezioni dell’attore stesso, non solo del pubblico. 

Facciamoci caso, se la scena di ieri sera fosse stata interna ad un film non avremmo avuto alcun problema a schierarci dalla parte di un uomo, che assistendo ad una pubblica umiliazione della persona amata, si alza e rimette al suo posto il “cattivone”. Ci avrebbe trasmesso un certo senso di giustizia, avremmo forse empatizzato con quell’uomo capace di tanto amore da non avere vergogna a difenderlo sotto gli occhi di buona parte di mondo. 

Ed è normale, perché in fondo il cinema rappresenta la modalità attraverso la quale il proiettante sposta una parte di sé “compromessa” per depositarla su un personaggio di finzione. Questo diventa l’estensione di tutte le nostre cosiddette follie e più reconditi desideri, si crea uno spazio in cui incontriamo i nostri doppi senza riconoscerli, ma in qualche modo, inconsciamente, diamo loro la possibilità di esistere e quindi di farne esperienza e di liberarcene. 

Per lo stesso principio, quando un attore viene applaudito, egli accetta automaticamente ed inconsciamente i contenuti (sia consentiti che proibiti), del suo personaggio. 

L’attore è il cordone ombelicale fra lo spettatore e il grande schermo ma anch’egli sviluppa un legame con il personaggio che interpreta rendendo il principio di realtà spesso obsoleto. 

Quello che è successo domenica sera ha creato un effetto di straniamento: l’attore Will Smith non ha soddisfatto le aspettative dell’uomo Will Smith. Come potrebbe lo stesso personaggio di Alla Ricerca della Felicità, Sette Anime, Io Robot, Hitch e via dicendo, trasformarsi in una frazione di secondi in una pulsione alla violenza sul palco più “politically correct” che conosciamo? 

L’uomo reale si è lasciato andare all’agito in difesa della moglie, di un principio violato per lui imprescindibile. Trattandosi della realtà e non di un film, tutto quello che ci permettiamo di sentire e di vivere nella finzione, è stato bloccato dalle norme sociali, dalle regole e dal buon senso che innegabilmente deve imporsi nella quotidianità che ognuno di noi condivide con l’altro. 

Il punto è che a causa di un principio di identificazione proiettiva che avviene sul personaggio di finzione e che allo stesso tempo ci permette di vivere quello che nella vita reale non potremmo accettare, rischiamo di confondere attore e persona reale senza renderci conto che anch’esso funge da contenitore delle nostre proiezioni e che spesso, questo, porta l’uomo reale alla distruzione. Come una sorta di cannibalismo interno.

Sostanzialmente: “Posso vedere in te solo quello che io ti metto dentro, se non lo vedo, non vedo niente”.  

Fermo restando che ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte in questa società e che deresponsabilizzare un atto di violenza non è mai la scelta corretta, va allo stesso modo ridimensionato il concetto di potersi permettere tutto purché nascosti dietro ad una discutibile ironia. Perché mentre noi ci nascondiamo dietro un finto specchio di risate che riflette un bisogno egocentrico di riconoscimento, davanti a noi c’è sempre una persona reale che funge da bersaglio. Il più della volte di quella persona sappiamo poco e niente e forse, un po’ di rispetto in più e un po’ di forzato sarcasmo in meno, farebbe ripiegare di quel poco che basta l’esercito dei narcisi.