Paris, Texas (Germania Ovest, Francia, Regno Unito, 1984). Regia: Wim Wenders. Interpreti: Harry Dean Stanton, Nastassja Kinski, Dean Stockwell, Aurore Clément, Hunter Carson.

l film si apre sulla figura di un uomo che avanza nel deserto, un luogo senza tempo e senza identità come lui. Lo accompagnano il silenzio e una luce accecante, e nulla può dire da dove arrivi o quale sia la sua meta. Poi sviene, sfinito, in un’area di servizio.

Per i primi trenta minuti di lui sappiamo poco: solo che si chiama Travis, ha un fratello di nome Walt che parte da Los Angeles per andarlo a prendere, non vuole salire su un aereo e non vuole dire dove è stato e cosa ha fatto negli ultimi anni. Lungo la strada riesce solo a prendere in mano la foto sgualcita di un luogo desolato in Texas, sulla cui terra ha comprato per corrispondenza un lotto in un paese chiamato Paris, dove sua madre, un giorno, lo aveva concepito. Un’altra origine, un altro viaggio.

A Los Angeles ritrova Anne, la moglie di Walt, e Hunter, il figlio che gli zii avevano accolto in casa quando lui e Jane, la sua compagna, erano scomparsi quattro anni prima, e che adesso chiama mamma e papà.

Walt lavora sodo come ogni americano che si rispetti, ha comprato una villetta con un mutuo e tutte le sere Travis siede sulla veranda a contemplare  gli aerei che atterrano in aeroporto. Anche la loro provenienza è sconosciuta, così come la futura destinazione. Hunter inizialmente rifiuta il padre, che continua ad abitare il suo mondo lontano e senza parole, ma poi lentamente lo avvicina, con circospezione, come se una barriera invisibile fosse all’improvviso crollata. Non ci sono gesti eclatanti, toni alterati, anche il timore di Anne e Walt di perdere il ragazzo è vissuto in silenzio. Un giorno Travis va a scuola a prendere suo figlio, e restando sul marciapiede opposto lo accompagna verso casa, mimando i suoi gesti, riconoscendo così qualcosa che aveva scelto di allontanare e specchiandosi in lui dall’altro lato della strada. .

Quando Anne confida a Travis che tutti i mesi riceve un assegno per Hunter da una banca di Houston, capisce che quello è il posto dove Jane si è rifugiata e che il viaggio deve ricominciare. Le freeway della contea di Los Angeles, gli aerei, i vecchi pazzi che annunciano la fine del mondo, tutto risuona in modo disarmonico e ossessivo. Ma è il momento di partire, e Hunter decide di seguire il padre e aiutarlo nella ricerca della mamma. La strada è lunga e dolce, il rosso dei tramonti trascolora nel buio della notte, e il timore degli zii di perdere il bambino, che ormai ha otto anni, prendono corpo quando lui li chiama dicendo che se ne va. Ma è la strada su tutto che parla, i diner dove fermarsi a mangiare, i motel per dormire, il viaggio come senso della vita, il mito della frontiera sfrondato da ogni enfasi e disegnato nella sua essenzialità.

A Houston padre e figlio, appostati davanti alla banca da cui Jane spedisce il denaro alla cognata, riescono a individuarla e con un lungo inseguimento nel traffico della metropoli raggiungono la sua auto parcheggiata in un quartiere desolato dove la donna lavora in un peep-show. Travis entra nella sua cabina e la osserva in silenzio al di là dallo specchio, come un cliente tra i tanti. Poi prende il telefono e le parla: curioso, strambo forse, ma gentile. E quando torna il giorno dopo le racconta la storia di un uomo e una donna che si amavano malgrado la differenza di età e che insieme ebbero un figlio. Poi lui, lentamente, cominciò a trattarla male, a bere, ad allontanarla, fino a quando la loro roulotte prese fuoco la notte in cui si persero. Jane riconosce la voce, rivede se stessa quando era felice e aveva una famiglia. Lo specchio unidirezionale è il frammento che ancora separa le loro vite, lui la vede ma lei non può vederlo: quando i loro volti si sovrappongono in un gioco di luci per pochi istanti, si fondono in un unico dolore, e tutto sembra poter tornare ciò che era stato un tempo. Ma dopo aver dato a Jane l’indirizzo dell’albergo dove si trova suo figlio, Travis decide di partire ancora una volta.  

Più che nello spazio è un viaggio in una memoria tenuta sottotraccia, immaginata, accompagnata dalla steel guitar di Ry Cooder con musiche tra l’hawaiano e il country, dipinta con il tratto dei silenzi e di una natura potente che tutto racchiude.

E’ una storia semplice: sei personaggi, poche parole, fotografia straordinaria e personaggi abbozzati con pochi tratti: un canovaccio su cui Wim Wenders e Sam Shepard hanno trascritto gli spazi infiniti dell’America e delle anime che la attraversano: il fantasma del padre, rimosso e poi cercato, l’alcolismo, la fuga, una casa che non è mai casa perché c’è sempre una storia da scrivere e un’altra da perdere. Nessuna sceneggiatura di ferro, né effetti speciali, niente cinema come prodotto da esportazione, ma come atto d’amore per un paese dove ci si può perdere senza mai farsi ritrovare. Wenders ha voluto imprimere sulla pellicola sensazioni più che vicende, con la libertà di chi non è ostaggio della produzione e sa di poter raccontare la storia che davvero porta dentro di sé. Forse 37 anni fa era ancora possibile facendosi guidare da un’idea e un gruppo di persone che sapeva fidarsi di te, senza spiegamento di risorse o nomi di richiamo. C’è molto in questa storia dell’America sognata da Wenders e di quella vissuta da Shepard, drammaturgo e ranchero, poeta degli spazi e della solitudine.

Ciò che resta, alla fine, è un senso di spaesamento, come se tutte le strade percorse non fossero bastate a fornire una risposta, ma solo a favorire un incontro. Ma anche di pace, di accettazione, della vita che va come deve andare e non resta che accoglierla nelle sue smagliature per provare a trovarci dentro, ogni tanto, magari nel posto più impensato, un raggio di luce.