Perfetti Sconosciuti, del regista romano Paolo Genovese, è un’opera di successo, acclamata dal pubblico di tutto il mondo, tanto da entrare nel Guinness dei primati come il film con più remake nella storia del cinema.
Sono state scritte innumerevoli recensioni e tutte sembrano convergere su aspetti chiave (alcuni molto attuali) che rendono questo lungometraggio irresistibile: l’amicizia, il rapporto di coppia, quello tra genitori e figli e anche quello tra essere umano e tecnologia, i segreti, il tradimento, l’omosessualità e i pregiudizi che la accompagnano.
Esiste però un’altra tematica legata al film che sono riuscita a cogliere, inesplorata fino ad ora ma molto affascinante, in grado di aprire a riflessioni importanti ed è quella legata al tempo e al potere della nostra immaginazione.
Tutti noi ci sentiamo strettamente connessi agli eventi, in particolare a quelli che potrebbero avere degli effetti, delle ricadute importanti sulle nostre vite. Ogni esperienza umana e psicologica è legata a un tempo, non solo quello che conosciamo, quindi lineare, misurabile, cadenzato dal ritmo delle lancette di un orologio e che risulta essere uguale per tutti. Ne esiste anche uno soggettivo, interiore, che muta e si trasforma in ciascuno di noi in modo differente, di istante in istante, di circostanza in circostanza.
Personalmente, mi piace pensare al tempo come a un tessuto su cui ricamiamo le nostre esperienze di vita, che ci avvolge e ci protegge, ma che a volte è anche capace di opprimerci.
La nostra percezione di esso cambia a seconda del nostro stato d’animo: se siamo affaticati, amareggiati o annoiati un’ora e mezza sarà interminabile, al contrario, se siamo felici o interessati a qualcosa, scorrerà velocemente.
Nel film il tempo è dettato dalla luna, simbolo dell’inconscio, presente in numerosi frame. Per buona parte del film possiamo ammirarla nella sua pienezza e luminosità che accompagna un registro temporale reale: i personaggi vengono presentati in maniera minuziosa e così anche il contesto in cui si trovano, una casa accogliente e arredata con gusto, i dialoghi sono fluidi e perfettamente equilibrati. E noi spettatori ci sentiamo già parte di quel gruppo di amici riunitosi in occasione di una deliziosa cena ma ci aspettiamo anche qualcosa. Sembra, infatti, una serata troppo perfetta, troppo lineare, che quasi temiamo possa annoiarci. Ed ecco la proposta, da parte della padrona di casa, di partecipare a un gioco al massacro: disporre sul tavolo i propri cellulari per svelarne il contenuto ai commensali per tutta la durata della cena.
La luna avanza nella sua trasformazione, la nostra tensione cresce e iniziamo a perdere la cognizione del tempo. Spuntano le prime confessioni che restano dapprima ancora intime, come quella tra Lele (Valerio Mastandrea) e Peppe (Giuseppe Battiston) sul terrazzo o tra Rocco (Marco Giallini) e la moglie Eva (Kasia Smutniak) in cucina. E noi ci sentiamo quasi dei privilegiati a poter sbirciare ciò che accade all’insaputa del resto del gruppo e intuiamo lo spezzarsi di un’armonia, in un primo momento, impeccabile.
Con l’arrivo dell’eclissi (introdotta, non a caso, da una coppia di anziani sul balcone della casa di fronte), si entra in pieno nel registro atemporale, che si contrappone a quello reale, come se fossimo catapultati in un sogno, o meglio, in un incubo, dove tutto può esistere al suo interno, dove tutto è possibile e dove tutto è frangibile. L’appartamento diventa man mano un luogo claustrofobico, ci identifichiamo nei protagonisti, ci sentiamo ormai invischiati nelle loro storie, ci caliamo nei panni di mogli e mariti traditi, scioccati, amanti silenziati e amici incompresi ed emarginati. Queste molteplici sensazioni che si sommano in maniera incessante, occupano prepotentemente la nostra mente, tanto da sembrare collocate fuori da un tempo normale, geometrico.
E così, in poco meno di trenta minuti, ogni istante risuona come uno scarto dal consueto fluire del tempo. È come se fossimo sotto l’effetto di sostanze stupefacenti: spazio e tempo si distorcono, tutto fluisce nella tensionalità di un momento presente dove non esistono vissuti, ricordi o sogni ma tutta l’attenzione è focalizzata sul piacere. Vogliamo saperne sempre di più, desideriamo ardentemente aprire quelle “scatole nere” che sembrano il riflesso dell’animo umano, esplorarle per indignarci ancora di più e sentirci meno soli e, alla fine, sfiancati, vogliamo arrestare quella giostra che viaggia più veloce di noi.
E proprio quando abbiamo raggiunto il culmine del piacere e ci sentiamo come se fossimo appena usciti da una centrifuga e che coincide con il pensiero comune “peggio di così, cosa potrebbe succedere ancora?!”, la luna ritorna piena e splendente per consolarci nuovamente, ma in modo diverso, e porta ad aprirci a un pensiero nuovo.
La nostra vita abbraccia spesso e volentieri la dimensione condizionale del “se”: “se avessi scelto di non partecipare a quel gioco?”, “se avessi provato ad essere onesta/o?”.
L’immaginazione è uno strumento significativo perché ci permette, in maniera proiettiva, di visualizzare possibili scenari futuri ed è così che siamo esposti alla dimensione utopica e distopica dell’esistenza: utopica di un mondo desiderabile, perfetto e realizzabile nel tempo, distopica di uno scenario indesiderabile, spaventoso e privo di un tempo.
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