Photophobia (Slovacchia, Repubblica Ceca, Ucraina, 2023). Regia: Ivan Ostrochovský e Pavol Pekarcik

L’invasione dell’Ucraina è iniziata da pochi giorni e i russi bombardano la città di Kharkiv. Il film si apre su un’inquadratura fissa, alcuni operai che armeggiano attorno a un tombino in una gelida giornata di pioggia. I rumori delle bombe che cadono a poca distanza li fanno scappare, per poi ricomparire e infine nascondersi. Sarà l’unica scena girata all’aperto. Perché a partire da quei giorni gli abitanti iniziano a rifugiarsi nella stazione della metro. I due registi decidono così di raccontare al mondo queste giornate così intime nella loro quotidianità e così spaventose con i rumori della guerra che si sentono sopra il livello della strada.

Lo fanno attraverso gli occhi di due bambini di poco più di dieci anni, Niki e Vika, che sono stati portati sottoterra dalle loro famiglie per cercare una salvezza in giornate in cui non vi è più nessuna certezza. La vita nella stazione della metro e sopra i vagoni, fermi da tempo, scorre lenta ma organizzata: c’è un filtro all’ingresso per evitare ogni contatto con potenziali nemici; all’interno un servizio di pulizie e un piccolo ambulatorio medico. Ognuno cerca di contribuire con quello che ha e con quello che sa. I registi scelgono soprattutto di raccontare il punto di vista dell’infanzia. Molte le scene girate con la camera appoggiata a terra, molte quelle in cui i due bambini vagano per il sotterraneo, giocando tra loro con gli altri.

Niki vorrebbe uscire all’aperto, ma la luce del sole agevola i bombardamenti e costituisce un pericolo. La salvezza, o almeno un tentativo di cavarsela, si trova nel buio dei sotterranei, dove gli adulti cercano di immaginare la vita fuori, ciò che potrà accadere domani, e scoprono giorno dopo giorno di aver perso amici e conoscenti. E’ un film durissimo, che al di là di ogni dibattito o racconto giornalistico, in poco più di un’ora illustra un segmento di via durante la guerra. I bambini fanno ciò che la loro età chiede: giocano, corrono, cercano di divertirsi. Capiscono la realtà, ma provano a renderla viva, come se tutto fosse un gioco. Come fa un musicista con un cappello da cowboy, che con le note della sua chitarra prova ad alleggerire la tensione e a regalare a questi reclusi un po’ di serenità.

Niki costruisce nel sotterraneo i suoi castelli immaginari, e anche se la madre gli impedisce di uscire all’esterno, il suo desiderio sembra non avere limiti. Così una mattina, insieme a Vika, arriva all’ingresso della metro al sorgere del sole, che illumina i loro visi incorniciati da un triste sorriso.

Un film quasi alla Rossellini, senza una sceneggiatura, senza battute preparate, solo un canovaccio su cui sono i personaggi a scrivere la propria storia. Una presenza veneziana necessaria perché il cinema continua a rappresentare quegli anticorpi che la narrazione mainstream spesso dimentica, offrendoci storie che altrimenti mai avremmo conosciuto.