Piccola patria (Italia, 2013). Regia: Alessandro Rossetto. Interpreti principali: Maria Roveran, Roberta Da Soller, Vladimir Doda, Diego Ribon, Mirko Artuso, Lucia Mascino, Mateo Çili, Nicoletta Maragno, Giulio Brogi

Renata e Luisa sono due amiche e lavorano insieme in un grande albergo. Visto che la paga è misera, per mettere insieme un piccolo gruzzolo e scappare da una vita di mediocrità si imbarcano in un ricatto a sfondo sessuale nel quale è coinvolto a sua insaputa Bilal, il ragazzo albanese di Luisa. Attorno a loro ruotano famiglie travolte da tasse non pagate e tradimenti, la rabbia profonda e feroce di una terra che si sente invasa dallo straniero ma dove la domenica si continua a frequentare una parrocchia che predica la fratellanza. Una terra violentata da quello che Pasolini chiamava sviluppo senza progresso, un popolo abbrutito dall’unica attività che riconosce come degna di impegno: fare “schei”.  

Alessandro Rossetto, uno dei principali documentaristi italiani, si cimenta per la prima volta con un film di finzione attingendo a piene mani dalla materia che meglio conosce: un nordest che fin dalle prime scene aeree si presenta come un territorio privo di grazia, con campi e strade punteggiati da cubi di cemento e manufatti improbabili, dove i luoghi di aggregazione sono sagre popolari in cui tra una birra e una salsiccia si vomitano improperi contro gli immigrati. Alberi, canali d’irrigazione, camion, traffico e rumori, poligoni di tiro, tutto coesiste a costruire una frammentazione del territorio dove è impossibile riconoscersi al di fuori dei luoghi dedicati al lavoro e alla produzione.  

Il coro alpino, di solito cantore degli eroismi sulle vette difese durante la grande guerra, riporta invece solenne il lamento della natura, con una funzione dissonante e inattesa. Solo un vecchio saggio cerca di proporre un controcanto alla sequela di brutture che emergono a ogni scena, esprimendo la possibilità che esistano anche altre strade.

Ogni organismo ha i suoi anticorpi, e quelli del nord-est sono la sua capacità di raccontarsi al mondo al di là degli stereotipi legati alle eccellenze del territorio nella “locomotiva d’Italia”. Ma mentre in “Brutti sporchi e attivi” di Ettore Scola era la povertà economica a produrre mostri pronti a sbranarsi l’un l’altro, in questa vicenda il denaro è arrivato da tempo, la miseria del dopoguerra è stata lasciata alle spalle con la nascita delle piccole e medie imprese. E allora perché le persone sono insoddisfatte, rabbiose, pronte ad aggredire il prossimo, a truffarlo, a vendersi? Alessandro Rossetto ci regala uno sguardo antropologico su quella che Vitaliano Trevisan aveva battezzato “periferia diffusa”, un territorio frazionabile e sfruttabile all’infinito dove la tutela dell’ambiente è vista solo come vincolo allo sviluppo, e quindi un gravame da eludere con ogni mezzo.

Lo sguardo del regista non è giudicante ma si rivela impietoso nel tratteggiare un’umanità alla deriva, con relazioni familiari dove la logica del profitto ha scavalcato ogni tipo di affetto e gli sguardi sono fissi e privi di accoglienza. Perfino il dialetto, utilizzato in gran parte dei dialoghi e che necessita dei sottotitoli per essere compresa dal pubblico, appare come la difesa di una specificità chiusa in se stessa e timorosa di ogni apertura all’altro.

In “Libera nos a Malo”, romanzo pubblicato nel 1963, Luigi Meneghello raccontava il passaggio dal Veneto agricolo del fascismo a quello che stava avviando il proprio sviluppo industriale, chiedendosi dove fosse la felicità. Renata e Luisa cercano la loro felicità nella fuga verso un posto lontano, senza lo squallore di giornate passate a rincorrere scampoli di benessere. Ma per farlo usano le stesse armi brandite dalle persone che detestano: il ricatto, il tradimento, il gioco sporco. Cancellati i confini tra città e campagna, zone agricole e industriali, lavoro e famiglia, alle due amiche non resta altro che essere come gli altri per fuggire da loro il più lontano possibile.