Quel giorno tu sarai (2022) di Kornel Mundruczò

Il regista ungherese che avevamo già apprezzato in Pieces of a woman torna a stupirci con questo film in cui viene affrontato in modo personale e potente il tema della memoria, senza indulgere in nessun artificio retorico e senza una sola sbavatura.

Un Olocausto non raccontato ma visto e sentito attraverso la sospensione della parola. Infatti, secondo il regista non si può narrare l’orrore (si finirebbe con l’impoverirlo o asservirlo al nostro bisogno di essere rassicurati)  ma solo approssimarsi a  esso attraverso un realismo crudissimo che ne moltiplica l’impatto.

Un lunghissimo piano sequenza di circa venti minuti ci immette in un antro, un luogo nero e spettrale che potrebbe essere stata una camera a gas di Auschwitz. Tre uomini armati di spazzolone e damigiane d’acqua cominciano a buttarne copiosamente sulle superfici nere e melmose. Provano a detergere vigorosamente ma senza successo. Più strofinano più la sporcizia emerge. Non si sa chi siano, ogni parola è soppressa, ci sono solo i corpi che attraversano come in una danza questo luogo di morte. Trovano residui, mura incrostate e capelli, tantissimi capelli, prima solo ciocche, poi vere e proprie funi che vengono quasi spurgate dai muri.  E mentre si pensa che qualcuno di loro stia cercando qualcosa, forse un oggetto appartenuto a una persona amata, si sente il pianto di un bambino.

Dalla terra che si apre spunta  un  bambino, anzi una bimba,  puermiracoloso che del fiabesco miracoloso ha le movenze. Rompendo la circolare ipnosi del piano sequenza, i soldati escono fuori, lontano dagli inferi, per portare la bimba verso la salvezza. Scena di rara e visionaria potenza, mentre  la bimba viene tirata in salvo e ancora il cielo è sorvolato da aerei e la neve isola Auschwitz in una dimensione di orrore senza tempo, noi diveniamo partecipi del miracolo della vita che brama solo di essere perpetuata. Quindi il crudo realismo è virato potentemente verso una strabiliante metafora sull’orrore che non può mai essere lavato ma che chiede anche vita, in uno slancio irrazionale bramoso di riconoscimento.

Così in un’epica ricostruzione viene “raccontata” la nascita di Eva dentro un campo di sterminio. 

  Nel secondo episodio, il più teatrale dei tre, in un appartamento una signora viene osservata da dietro, seduta a un tavolo di cucina. Se ne intuisce l’età anziana nella posa di abbandono, quasi dimentica di sé. Si comprende un legame con la scena iniziale e si scopre che quella anziana è la stessa Eva nata nel campo. Un’altra lunghissima sequenza in cui lei stessa, all’inizio confusa, parla con la figlia appena arriva da Berlino, pronta a ritirare un premio destinato a quegli ebrei che, tuttavia, lo devono comprovare attraverso una precisa documentazione. Chi è davvero Eva, com’è stata la sua vita prima e dopo il lager? La vicenda si ricompone attraverso un impietoso confronto fra madre e figlia; per questa essere ebrei è stato un lascito terribile, uno stigma che non ha mai finito di tessere la sua tela invisibile. Il dramma è, infatti, invisibile, ma presente, coincidente con il mancato riconoscimento dell’identità e della appartenenza. Per poter vivere, infatti, i membri di questa famiglia hanno continuato a doversi giustificare. Ed è per questo che Lena vuole ritirare il premio, perché almeno, dice, avrà tratto qualcosa di utile dal suo essere nata ebrea. 

Il terzo episodio è dedicato a Jonas, figlio di Lena. Vive a Berlino l’esistenza di un normale adolescente alle prese con i primi turbamenti fisici, un accenno di bullismo subito da ragazzi più grandi. La cinepresa presenta in questo terzo episodio un dinamismo straordinario. Alle sequenze iniziali dinamiche anch’esse, ma cupissime, si sostituiscono immagini ricche di colori, ardite e sfrontate come solo la gioventù sa essere, ignara del mondo e della storia, affacciandosi ingenua sul mondo, anche se la storia agisce sotterranea lo stesso.

Nella foto della nonna sul piano, nei rituali ebraici che la madre si ostina a voler osservare, fermenta il sostrato dell’inconsapevole e vibrante Jonas. In poche liriche sequenze si sprigiona il senso delle generazioni che si passano il testimone, che si amano nonostante l’impossibilità di capirsi. Ed è proprio nel terzo degli episodi che compongono questo trittico che si comprende il titolo originario, Evolution. Cosa resta di un passato simile? Quanto viene pagato ancora dalle generazioni nuove? Il film non ci mostra alcuna risposta veloce o comoda, ci lascia, anzi, tutto il tempo del mondo per rifletterci, per muoverci fra la necessità del ricordo e il bisogno di nuovo e di vita di chi è giovane e desidera solo vivere.