Qui rido io (2021) regia di Mario Martone

Questo nuovo film del regista napoletano è incentrato sulla figura di Eduardo Scarpetta all’apice del successo, colto nel pieno della sua megalomania ed egocentrismo, in una Napoli che, adorandolo, era disposta a tutto pur di avere i biglietti delle sue commedie.

La vicenda da cui trae spunto Martone è quella del processo intentatogli contro da Gabriele d’Annunzio che lo accusava di contraffazione per la parodia del suo La figlia di Iorio. Contro il comico napoletano si schierarono anche alcuni letterati del tempo, fra cui Bovio e Di Giacomo.  

Dalla ricostruzione del processo che vide schierato a fianco di Scarpetta anche Benedetto Croce, il regista prende spunto per disegnare un affresco caleidoscopico e convulso della storia della famiglia Scarpetta.

L’inizio gioca infatti volutamente sulla confusione tra vita e teatro, sul rimescolamento dei ruoli, sull’entrata e uscita dal palcoscenico, dove uno Scarpetta istrionesco e vitalissimo esercita la sua indiscussa leadership. La vita familiare è altrettanto vitale e confusiva, alla moglie ufficiale si affiancano parenti e serve da cui il capostipite ha avuto figli legittimi e illegittimi, in un coacervo di amore per il teatro e rivalità inevitabile.

Qui si costruisce l’idea di una rappresentazione irridente e corrosiva che non teme il dileggio nei confronti dei potenti, ma che mira a intaccare soprattutto la boria dei saccenti, in particolare quando questi parlano di disperati ed emarginati. Dalla complessità del film emerge una riflessione politica non da poco, perché gli intellettuali dell’epoca rinfacciavano a Scarpetta una presa sulla realtà banalizzante, furba e manichea nella quale del popolo non veniva mai davvero rappresentata la sofferenza, ma l’esuberanza volta a catturare il plauso del pubblico.

Questa critica, a lungo andare, intaccò la fiducia del comico nella propria capacità di analisi della realtà, anche se mai lui lo riconobbe.  Napoli, poi, offre uno sfondo teatrale di indubbio fascino, e le suggestioni architettoniche e degli interni della belle époque fanno risaltare, anche nella vita domestica, la brama di autoaffermazione da parvenu di Scarpetta. Qua e là già si intuisce, tuttavia, il seme della paura di perdere il riconoscimento sociale conquistato con tanta fatica. Ma c’è di più, c’è il contrasto fra vita e morte, fra azione, mimesi e artificio, fra Pulcinella, che per Scarpetta rappresenta una fase ormai conclusa e morente del teatro, e i personaggi da lui creati. Su questo crinale si muovono le sue creature, mentre i bambini, che sono ovunque nel film, osservano da dietro le quinte tutto il mondo che si crea sul palcoscenico, finché non vengono anche loro direttamente coinvolti nelle rappresentazioni.

Un Eduardo De Filippo bambino osserva estatico tutto quello che succede, beve ogni parola, impara tutto, lo sguardo volto a catturare ogni svolta dell’azione scenica, un dietro le quinte che è anche una ricerca delle origini del suo teatro.

Ma è nella seconda parte del film che il senso della solitudine si accentua, e il volto di Scarpetta-Servillo acquista una qualità drammatica che prima era assente. La sua capacità di passare dal riso al dramma è, infatti, sorprendente. Si avverte il senso di una tragedia che si insinua nella commedia, il disperato attaccamento di Scarpetta ai simboli stessi del suo potere sul pubblico provoca un senso di vuoto e di depressione che Servillo è capace di modulare con maschere sempre più struggenti.

La villa di Via Palizzi, una delle strade più suggestive e panoramiche della città, che il comico fittò per un periodo acquista una coloritura decadente, mentre la complessità si fa strada in un mondo che sembrava superficiale e banale. Nella villa le foto gigantesche di Scarpetta schiacciano il figlio Vincenzo, condannato a un’eterna subalternità, mentre i rapporti che sembravano semplici si arricchiscono di sfumature fatte di disagio, senso di indegnità, rivalità. Non a caso le scene più lunghe sono quelle dedicate ai pranzi durante i quali non soltanto Scarpetta mostra di volersi mangiare il mondo intero, ma soprattutto durante i quali emergono le gerarchie dolorose all’interno della famiglia (memorabile la divisione del sartù di riso che Scarpetta fa fra i vari figli).

La solitaria camminata notturna del protagonista nelle strade della città è uno dei passaggi più lirici del film, che ben rappresenta il confronto fra Scarpetta e i suoi demoni, fra cui la paura del declino e della morte che per il comico è soprattutto l’esaurirsi della sua vena creativa. Martone sa cogliere i segni del nuovo che scalzano il vecchio in una progressione drammatica che ci mostra quanto il comico sia un mascheramento della tragedia.

Tutti i fili della storia sembrano poi convergere nel decisivo dialogo fra il vecchio comico e Benedetto Croce che, fornendogli una lezione sul sublime nell’arte, è l’unico a cui è consentito di  ridimensionare lo smisurato Ego dello scrittore.