La follia è un dono che ti fa vedere la verità
E’ intorno a questa frase che Ragazze Interrotte tesse la sua trama. Una sorta di spettacolo ipnotico che solo un ragno con la sua ragnatela è in grado di creare. Questa è la sensazione che lascia il film, qualcosa che ti spaventa da un lato ma del quale non si può non riconoscerne la meraviglia.
La verità intesa in questo senso funge da tsunami di un film che non solo non passa mai di moda, ma al contrario tratta temi che sono pericolosamente attuali.
La verità di cui parla Lisa, magistralmente interpretata da un giovanissima Angelina Jolie, “l’irriducibile sociopatica” per cui le altre pazienti provano contemporaneamente paura e ammirazione, è quella verità che esprime il vuoto della condizione umana nel suo senso più profondo. Quello che avvertiamo fin da subito è sofferenza pura, un dolore che affligge tutte le protagoniste che impariamo a conoscere durante il film e che ognuna di loro, inconsapevole di quello stesso male, cerca di estirparsi da dentro, di svuotare un vuoto che è tale di per sé riempiendolo ognuna del proprio personale disturbo.
Le patologie sono tutte quelle che oggi descrivono la contemporaneità del vuoto di cui parliamo:
Anoressia
Bulimia
Depressione
Dipendenza
Sociopatia
Le ragazze interrotte protagoniste del film si trovano ad un bivio, quello fra la tanto bramata quanto temuta e straziante costruzione del sé e il fascino che la morte stessa esercita su corpi svuotati, perpetuamente puniti per qualcosa che nemmeno si conosce o forse, peggio ancora, qualcosa che si sa ma che non si ha il coraggio di ammettere.
Tutto quello che non vogliamo ammettere. Quel demone che sovrasta e si impossessa di ogni emozione: dolore, rabbia, sofferenza, terrore. Tutto quello che distrugge lentamente, logora giorno dopo giorno anime che si affacciano alla vita, è lo stesso che non vogliamo riconoscere e a cui diamo sempre, tutti, un potere enorme.
Le protagoniste del film si trovano in una clinica cosiddetta di “lusso”, Claymoore. Siamo negli anni ’60. La protagonista, Susanna, si vanta di una sorta di dis-adattamento ai modelli di vita imposti dai genitori (parte di quella casta definita “per bene”, ma alla fine parte della stessa sudicia realtà di cui l’essere umano è troppo spesso sia vittima che carnefice).
Il conflitto che Susanna vive con le regole di un mondo in cui non trova la sua collocazione provoca in lei un senso di rifiuto rabbioso che vedremo appartenere a una visione distorta di sé stessa. Quella voragine, quella rabbia, quel senso di inadeguatezza non sono infatti riferite a dei canoni di un mondo in cui non si riconosce ma (e qui il demone di cui parlavamo poco fa), solamente a sé stessa. Quel senso di non accettazione, interrompe, appunto, ogni possibilità di empatia. Quest’interruzione a cui si riferisce il film fa parte di una sofferenza di cui tutte le protagoniste sono portatrici senza davvero percepirla.
Non percepire quella sofferenza disegna confini sempre più profondi fra il modo in cui percepiamo noi stessi, il mondo esterno e la relazione che si crea fra noi e il mondo esterno. Non è un caso infatti che il processo di guarigione di Susanna inizi proprio quando sceglie da sola, consapevolmente, di parlarne. Quando non si nasconde più dietro fittizi e maniacali meccanismi di controllo, quando smette di rifiutare sé stessa, quello che sente, quel suo senso di inadeguatezza.

Ecco è proprio in questo preciso istante che avviene il miracolo, quando ci permettiamo di sentirci sbagliati, quando ritiriamo le proiezioni e ci accorgiamo che quel sentirci sbagliati è un dono perché in realtà ci rende perfetti nella nostra unicità. Ecco, quando smettiamo di rincorrere un ideale, quando non pensiamo che sia errato non conformarsi a qualcosa che sentiamo non appartenerci, quando quello che la nostra mente ci sussurra all’orecchio lo diciamo a voce alta, ci rendiamo consapevoli del reale significato. Estirpiamo a quel pensiero un senso distorto e riprendiamo contatto con la realtà delle cose così com’è, così come siamo, anche (spesso), in tutta la nostra folle visione del mondo.
E’ fondamentale però che dal mondo non ci ritiriamo, è essenziale che non ci nascondiamo e che non ci alleiamo con noi stessi e con chi pensiamo possa capirci perché “è come me e sa cosa provo”. No, così non facciamo altro, paradossalmente, che alimentare la fiamma dell’insoddisfazione. Diventiamo noi quel famoso gatto che passa i suoi giorni mordendosi la coda convincendoci che sia un dono saperlo fare.
Nel film assistiamo al passaggio di una mancanza totale di empatia ad un principio di simpatia. Non solo nei confronti di un gruppo (l’importanza del gruppo è innegabile, un potere supremo di alleanza e di supporto). Ma anche e soprattutto nei confronti di sé. Le ragazze, ancora una volta, non guariscono magicamente da una sofferenza che può essere solo sedata dai farmaci, ma viene palesata, sputata fuori in una scena finale carica di un dolore così penetrante da spaventare e disorientare lo spettatore.
Perché ognuno di noi, almeno una volta, si è sentito così.
“Dichiarata sana e rispedita nel mondo. Diagnosi finale: borderline recuperata. Che cosa voglia dire ancora non l’ho capito. Sono mai stata matta? Forse sì. La follia non è essere a pezzi o custodire un oscuro segreto. La follia siete voi o io, amplificati: se avete mai detto una bugia e vi è piaciuto, se avete mai desiderato di poter restare bambini in eterno… Non erano perfette ma erano amiche mie.
Negli anni 70 quasi tutte erano uscite e vivevano la loro vita. Alcune le ho riviste, altre no, mai più. Ma non c’è un giorno in cui il mio cuore non le ritrovi”.
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