“Si può trovare un perché nell’azione degli uomini?”

RASHOMON (1950) di AKIRA KUROSAWA

C’è un elemento totalizzante, assorbente, sferico, che ingloba tutto, e soprattutto tutti, nel capolavoro di Kurosawa: la natura.

Splendida e cupa. E’ la principale interprete del film. Tutto si svolge alla luce e all’ombra della natura. Persino il processo si fa all’aperto. Non c’è scena al di fuori della natura.

E questa supremazia è lampante di fronte al secondo elemento che, senza opera di destrutturazione, risulta invece fagocitata: l’Altra natura, quella umana. Misera. Come misera è una vicenda di aggressione. Come misere sono le falsità che vengono raccontate, ognuna diversa dall’altre. Come tragica è la fine del samurai.

Tutte per giustificare le “proprie” verità. Solo l’inizio e la fine sono identici nel racconto di ognuno. Ma il percorso che divide i due poli antitetici della storia sono diversi, a seconda di chi la racconta. Perfino la testimonianza del morto risulta diversa.

Quindi il film è chiaramente metaforico. La nascita è uguale alla morte, si parte da un punto e si arriva ad un altro punto, ma il percorso è diverso e varia a seconda dell’impostazione che ognuno dà alla propria vita, che può essere diversa da quella reale. Perché ognuno racconta sempre la propria verità anche quando non è sincera.

E la Verità, quella Unica?

Non è ammesso all’umano conoscerla. Ma esiste anche la redenzione. Ecco il messaggio di Kurosawa. Il “miracolo” finale assume infatti il senso del divino (la natura splendente dopo la tempesta?). Ed è un messaggio positivo. C’è speranza, l’accogliere un altro bimbo abbandonato dà il senso della fiducia e dell’opportunità di poter scorgere nell’uomo menzognero quella pietà che è la base della vita terrena. Capolavoro Iniziatico.