“UMI YORI MO MADA FUKAKU”, GIAPPONE, 2016 REGIA: HIROKAZU KORE’EDA. INTERPRETI PRINCIPALI: HIROSHI ABE, KIRIN KIKI, YŌKO MAKI, TAIYO YOSHIZAWA, SATOMI KOBAIASHI
Ryota è un adulto incapace di governare la propria vita. A causa della sua inaffidabilità sul lavoro e del vizio del gioco la moglie Kyoko se n’è andata insieme al figlio, e lui trascorre le giornate tra incarichi di poco conto per un’agenzia investigativa, visite interessate alla madre e momenti in cui spia da lontano la ex moglie per capire se si è sistemata di nuovo con un altro uomo.
La storia si apre su madre e sorella del protagonista che scrivono dei biglietti di auguri. Un momento di apparente ordinarietà ci introduce alla cifra narrativa di Kore’eda: la famiglia come fulcro delle relazioni e paradigma delle esistenze. Quelle che Gozzano chiamava le “buone cose di pessimo gusto” e che riempiono la casa di Yoshiko, la madre di Ryoka, rimandano non alla nostalgia dei crepuscolari ma a una vita di piccole cure e attenzioni, di tempo che passa indifferente scorrendo sui corpi e le abitudini di chi rimane. Il marito morto e nemmeno troppo rimpianto, ma che passa a trovarla nei sogni o sotto forma di farfalla, una presenze spirituale tipica dello shintoismo; i quaderni dei figli nascosti negli armadi, che riemergono quasi per caso segnando il passaggio di consegne tra generazioni; il cordone ombelicale del figlio, tenuto come una reliquia in una piccola scatola di legno, che la madre recide definitivamente consegnandolo alla generazione successiva in un passaggio simbolico appena sussurrato. Tutti piccoli segni che fanno da cornice alle giornate senza costrutto del protagonista, confinato in un monolocale privo del decoro più elementare, dove campeggiano in libreria decine di copie del libro con cui qualche anno prima aveva vinto un premio letterario, promessa di futuro mai mantenuta.
Quasi tutto il racconto segue le ore dell’unica domenica al mese in cui Ryoka può vedere il figlio undicenne Shingo. Anche stavolta il padre non ha con sé la piccola somma mensile da versare per il suo mantenimento, che rimanda al mese successivo senza crederci nemmeno lui per primo. Padre e figlio passeggiano per una Tokio di quartieri durante tutta la giornata, mangiando insieme e acquistando un nuovo paio di scarpe da ginnastica, poi andando alle corse e comprando dei biglietti per la lotteria. Parlano raccontandosi e cercando un contatto da costruire, in realtà interessati ciascuno alla propria realtà: il figlio a capire se i genitori potranno tornare insieme, il padre a carpire al figlio notizie sul nuovo fidanzato della madre.

Nel pomeriggio arrivano inaspettati a casa della nonna, dove la madre li raggiungerà per cena, e rimarranno bloccati lì anche durante la notte a causa del tifone che sta per abbattersi sulla città per la gioia inaspettata della nonna, entusiasta di questo contrattempo che li costringe a fermarsi ospiti nella sua piccola casa. Ryota prova a sedurre la moglie, ma subito rinuncia davanti alla freddezza di lei. Durante la notte padre e figlio escono in strada con una torcia e raggiungono il parco giochi del quartiere, dove si nascondono all’interno dei tentacoli di una grande piovra che li protegge dalla tempesta. In questo grande ventre colorato di rosso li raggiunge Yoshiko, e insieme passano quasi in silenzio un lungo istante. Poi, improvviso, Ryoka si rende conto perché lei non tornerà più con lui, e cosa è stato per la sua famiglia. “Sì, ora capisco”, dice.

Rientreranno a casa dalla nonna e all’alba, quando la tempesta avrà lasciato un cielo sgombro e luminoso, riprenderanno il proprio cammino, finalmente consapevoli che anche se lontani resteranno sempre una famiglia.
In una scena quasi sbalzata dal contesto, Ryoka usa una pinza per prendere da una ciotola piena di incenso bruciato quello che resta di alcuni bastoncini e spostarli su un giornale aperto separandoli dalla polvere indistinta che giace nella ciotola. Come se separasse le ossa del padre, dopo la cremazione, e le mettesse da parte per conservare ciò che resta di lui.
E’ questa la cifra simbolica di Kore’eda, già incontrato nello splendido “Father and son”, che precede di pochi anni questo film. Piccoli gesti, quasi impercettibili, ma che restituiscono al senso delle giornate la sua profonda essenza, quella della vita che scorre e non ritorna. Il rapporto tra padre e figlio, il sospetto sempre messo a verifica che l’uno sia uguale all’altro generazione dopo generazione. E l’idea, appena sussurrata, che non è così, e che forse la consapevolezza di sé aumenta le nostre possibilità per conoscerci e affrancarci da destini che qualcuno ci aveva già assegnato.
La nonna è la grande madre, consapevole di essere alla fine della vita, e che parla di come saranno le cose dopo che se ne sarà andata. Nessuno si affretta a rigettare questa idea perché ognuno sa che sarà così, ed è inutile fingere che non sia la verità, spingere ancora più lontano una sorte che tutti ci accomuna. La nonna tiene insieme i pezzi della sua famiglia fingendo di non vedere i due figli che le fanno sparire i pochi ien che ha nascosto in casa, sognando che possano vivere di nuovo uniti, cucinando per loro, preparando il futon per la notte e ospitandoli quando fuori la città è sferzata dal tifone.
![Ritratto di Famiglia con Tempesta: storia di un fallito [recensione blu-ray] | Anonima Cinefili](http://i1.wp.com/www.anonimacinefili.it/wp-content/uploads/2018/02/ritratto-di-famiglia-con-tempesta.jpg?resize=1200%2C600)
L’accoglienza dello stare tutti insieme, la frattura della tempesta, e di nuovo la vita che riprende a scorrere dopo questo dolce interludio. Kore’eda parla una lingua basilare, con il talento di far “sentire” le emozioni che offrono i piccoli riti quotidiani, la loro preziosità, la precarietà di ciò che domani potrebbe non ripetersi più. Emozioni sussurrate in quelle zone di mezzo dove ciascuno può scovare ciò riesce a toccarlo senza però sentirsi scosso, quasi pensando “Ecco, era questo…”.
Riconoscersi in una cultura diversa, una ritmicità compassata, nomi e luoghi sconosciuti, eppure sentire che sono dentro di noi. E’ il regalo che questa storia ci lascia alla fine del film.
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