Rollerball (USA, 1975). Regia: Norman Jewison. Interpeti principali: James Caan, John Houseman, Maud Adams, John Beck, Moses Gunn, Pamela Hensley, Barbara Trentham, Shane Rimmer
Ci sono aggettivi che restano incollati a un genere cinematografico quasi come una seconda pelle. Il thriller è spesso adrenalinico, il western crepuscolare, e il futuro nei film di fantascienza è quasi sempre distopico, ovvero (dal greco) ambientato in un “luogo cattivo”. Arancia meccanica, Metropolis e Farenheit 451 raccontavano in effetti mondi spaventosi, in cui il potere aveva creato una società totalitaria dove la libertà dell’uomo era ridotta al minimo e la tutela dell’ordine passava attraverso l’annullamento della personalità, della cultura, della libera espressione dell’individuo.
Non si può dire che Rollerball racconti un futuro distopico: in un 2018 immaginato nel 1973 da William Harrison, anche sceneggiatore del film, nel suo racconto Roller Ball Murder non esistono più nazioni, miseria e criminalità; dopo la Terza Guerra Mondiale il governo del globo terrestre è stato preso dalle Corporazioni che si occupano di non far mancare nulla ai cittadini. L’unico spazio residuo in cui si permette alle pulsioni più primitive di emergere è il Rollerball, un gioco che si svolge in una pista di pattinaggio circolare e sopraelevata, circondata dagli spalti, in cui due squadre di giocatori, alcuni su pattini a rotelle e altri su moto, si contendono una sfera d’acciaio.

Jonathan E. gioca per la squadra di Houston ed è l’idolo indiscusso di questo sport. Tuttavia il Comitato direttivo delle Corporazioni gli chiede senza mezzi termini di ritirarsi, arrivando a minacciarlo e a cambiare le regole del gioco, cancellando le espulsioni, i limiti di tempo e consentendo ogni tipo di intervento. La finale contro New York sarà un massacro.
Il governo del mondo prevede la cessione di una certa quota di libertà in cambio della sicurezza: la libertà di Jonathan di continuare a giocare per otto anni in uno sport dove al massimo si può resistere due stagioni è ciò che spaventa le Corporazioni. La sua forza, il carisma, la fama che ha conquistato in tutto il mondo ne alimentano l’immagine e questo il Potere non può consentirlo. Tutto è intercambiabile: come le compagne di Jonathan, che dopo che un dirigente si era preso la sua donna, vengono sostituite ogni sei mesi. Per avere comodità e ricchezza le persone si adeguano, e lo invitano a cedere, chiedendogli di accettare questa richiesta come un sacrificio tutto sommato risibile. La maschera del protagonista, nascosta dietro un corpo scolpito dall’allenamento, è uno sguardo di sofferenza e incredulità, una domanda che continua a rimanere senza risposta. Perché devo ritirarmi? Quale errore ho commesso? Perché sono così pericoloso per il sistema?
Quando all’alba, dopo una notte di alcol e sesso, gli invitati a una festa si passano di mano in mano una pistola che con un solo colpo è in grado di incenerire alberi altissimi, gli sguardi sono liquidi, il divertimento effimero, la ricerca di un senso alle proprie vite inesistente.

Si accontentano di esistere, semplicemente, vivendo le comodità offertegli dalle Corporazioni. Malgrado i suoi tentativi, che lo portano in giro per biblioteche ed enormi banche dati, Jonathan non comprende ciò che gli sta accadendo. Dice che lo fa per la squadra, che non si ritira perché i suoi compagni hanno bisogno di lui. Ma è in realtà lui ad avere bisogno di un senso, e ricercarlo attraverso la ribellione a una richiesta che lui solo trova inaccettabile.
Se siamo fatti dei film che abbiamo visto, questa vicenda così toccante per un adolescente degli anni ’70 è riemersa prepotente dopo quasi 50 anni dalla prima e unica visione. Le musiche, soprattutto: dalla toccata e fuga in re minore di Bach, che apre e chiude il film, all’adagio di Albinoni (https://www.youtube.com/watch?v=u99f9RAvwu4), che accompagna i momenti in cui il protagonista rivive la storia d’amore con la donna che gli è stata portata via. La quale, incontrata nuovamente, gli racconta di una vita ordinaria: un marito con un’amante, un figlio, un cane, senza un ordine di importanza perché forse nulla è più importante quando si è rinunciato alla propria libertà.
James Caan, che ci ha lasciati pochi giorni fa, rappresenta forse l’eroe silenzioso che quell’adolescente avrebbe voluto diventare: forte ma riflessivo, un punto di riferimento per i compagni ma mai sopra le righe. Un recitativo antiretorico, in netta dissonanza con le musiche, così come la velocità delle scene di gioco appare un contrappunto netto con il percorso lento e laborioso della ricerca della verità da parte del protagonista. Per qualche strana alchimia che non so spiegare, il risultato è un film fortemente imperfetto, con archetipi visitati dal cinema decine di volte (uno per tutti: l’Uomo Solo contro il Sistema) ma che rivisto oggi non ha perso nulla delle emozioni che aveva saputo regalare ai miei 15 anni.
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