Sibel (Turchia, Francia, Lussemburgo, 2018). Regia: Guillaume Giovanetti E Çagla Zencirci. Interpreti principali: Damla Sönmez, Erkan Kolçak Köstendil, Elit İşcan, Emin Gürsoy.

Sibel ha 25 anni, lo sguardo corrucciato e il corpo sempre in movimento. Il suo habitat è il bosco: è lì che cerca di uccidere un lupo che spaventa il villaggio e sempre lì incontra Narin, una vecchia solitaria che, chiusa nel suo capanno, aspetta da un tempo ormai remoto il ritorno del fidanzato.

Sibel vive con il padre vedovo e la sorella minore in una casa ai margini del villaggio e comunica solo attraverso il fischio, l’unico mezzo che conosce da quando da piccola, a seguito di una malattia, ha perso la parola. La sua disabilità la rende diversa agli occhi delle donne del villaggio, con cui lavora nei campi ma che non riescono a farla sentire una di loro. Solo il padre la sostiene, tanto da averle regalato il proprio fucile e da prende le sue difese nei confronti di Fatma, la sorella che ancora va a scuola. Sibel lo ricambia cucinando, lavando, comportandosi come una moglie che non c’è più e che aveva il dovere di mandare avanti la casa.

Quando nel bosco incontra un uomo ferito il suo ritmo inizia a mutare: la caccia al lupo, che costruiva il senso delle sue giornate nella speranza di dimostrare al villaggio il proprio valore, passa in secondo piano. L’uomo è un disertore, e nel capanno in cui Sibel lo nasconde inizia a celebrarsi una nuova quotidianità fatta di accoglienza delle reciproche diversità.

L’altro non è più un animale da uccidere ma un essere umano da curare. In quello spazio neutro immerso nella natura non esistono più regole dettate da altri ma solo due persone in fuga da un passato che le ha rese ostili al resto del mondo.

Lentamente, lei nella melodia della sua lingua fischiata, lui con la parola, iniziano a conoscersi.

Ma una “handicappata” non può vivere la sua vita, se non all’interno dei margini che le sono stati concessi: così quando Fatma scopre il segreto della sorella e lo rivela al villaggio, l’ostilità contro di lei aumenterà fino a coinvolgere anche il padre, il cui gesto di un attimo cambierà per sempre lo sguardo di Sibel sul mondo che ha attorno.

I due registi hanno svolto un grande lavoro etnografico sul linguaggio ancestrale di una lingua fischiata che esiste davvero e serve a comunicare in una piccola zona della Turchia sui monti a ridosso del Mar Nero.

Il racconto ha la leggerezza di una favola e la potenza del dramma. L’amalgama degli attori, professionisti e abitanti del villaggio, restituisce un equilibrio elegante e sincero. Il bosco rende vivo il respiro della terra, non giudica, non ostacola, si limita ad accogliere senza fare domande ed è insieme a Sibel il vero protagonista della vicenda. I suoi colori, il respiro della natura, gli animali visti e quelli immaginati, raccontano di un mondo che tiene insieme desideri da inseguire e realtà con cui scontrarsi.

Sibel è un personaggio fuori dal tempo, straordinario nel suo affanno di vivere e nel filtro che la sua lingua particolare, davvero ascoltata solo dal padre e da Narin, le offre per tradurre la realtà che ha di fronte e renderla intellegibile agli occhi degli altri. Un folletto quasi irreale che non riesce a volare, ancorata al suo bisogno di essere accolta fino a quando riuscirà a capire che la sua vita può essere anche altro: forse per la scoperta dell’amore, che si era sempre negata persa dietro al fantasmi del lupo;  o forse perché il suo sguardo più consapevole, sempre limpido e puro ma ora meno sognatore, ha iniziato a scoprire tutti i vincoli cui le donne del villaggio sono sottoposte da secoli.

I disordini di piazza nella capitale lontana sono solo echi televisivi serali, ma raccontano un paese immenso diviso tra modernità e tradizione, desiderio di libertà e lotta quotidiana. La stessa lotta che Sibel, finalmente rimasta senza l’ombra del suo lupo, non teme più di affrontare.