Still life (Italia, UK, 2013). Regia: Uberto Pasolini. Interpreti principali: Eddie Marsan, Joanne Froggatt, Karen Drury, Andrew Buchan, Neil D’Souza

John May è un uomo mite e solitario e mette al servizio del proprio lavoro queste sue qualità. Quale funzionario di un municipio di Londra la sua attività consiste nel dare una degna sepoltura a tutte le persone che hanno lasciato questo mondo senza una famiglia che si occupasse di loro. Sono morti solitari, trovati per strada o nelle proprie abitazioni molti giorni dopo il decesso. John May li incontra e li prende in carico esattamente a quel punto di loro viaggio, dopo l’ultima stazione. Esplora le loro case, trova nelle foto o nei documenti nascosti in un cassetto qualche frammento della loro storia e attraverso quello ne ricostruisce un’identità sufficiente per scrivere un’omelia che il giorno appresso il sacerdote leggerà in una chiesa vuota.

Nei funerali che riesce a organizzare è l’unico a seguire il feretro, ma il suo lavoro è tutto ciò che ha, e la cura che gli dedica è pari al rigore quasi ossessivo dei suoi gesti quotidiani: appendere la giacca appena varcata la soglia di casa, sbucciare una mela lasciando nel piatto un’unica buccia, spostare una sedia o apparecchiare il tavolo. Ma l’ente per cui lavora, attraverso un superiore cinico e arrogante, vede in lui solamente un costo: un dipendente scrupoloso ma troppo lento che svolge un’attività che non serve a nessuno.

John aveva iniziato da poco ad occuparsi della morte di un vecchio alcolizzato e attaccabrighe di cui nessuno sembra avere rimpianto, ed ottiene di poter seguire così il suo ultimo caso. Così la storia di Billy Stoke, che abitava il suo stesso quartiere ma lui non aveva mai visto, incrocia la sua illuminandone la perfetta solitudine che forse non aveva mai davvero sentito. I colleghi di lavoro di Billy, una ex che lo aveva amato e perduto, i compagni di bevute, raccontano di un uomo generoso e collerico, capace di grandi gesti come di repentine cadute.

Tutto il contrario di John, sempre morigerato, identico a se stesso nell’abbigliamento, nella postura, nelle frasi e nei gesti quotidiani. La vitalità di Billy, la sua passione e la sua incostanza, il perdersi dietro a una provocazione, le amicizia che aveva costruito, sono per John uno specchio in cui riflettersi. Inizia così, impercettibilmente, a cambiare: accetta una cioccolata al posto del tè, assaggia piatti nuovi, reagisce nei confronti del suo capo; e incontra Kelly, la figlia che Billy aveva abbandonato da piccola e aveva continuato ad amare da lontano. Lei rimane colpita da quest’uomo mite e determinato, che parla con entusiasmo della lapide che ha scelto e del loculo che gli ha trovato, guardandolo sorpresa senza capire come la morte di suo padre possa aver generato così tanta vita in lui.

Still life significa natura morta, un quadro che raccoglie oggetti inanimati, e la regia sceglie di raccontare il protagonista tratteggiandolo all’inizio con colori desaturati, quasi smorti: nelle inquadrature di Uberto Pasolini (che ha scritto, prodotto e diretto il film) ritroviamo la fissità della vita di John e degli oggetti che la accompagnano. Ma con lo scorrere delle giornate e l’evoluzione del protagonista i colori diventano più vividi e caldi. Se dietro la ripetitività dei gesti e l’affetto per i “suoi” morti si nasconde il timore di aprirsi alla vita, la scoperta di un padre scomparso gli offre l’occasione per raccontare alla figlia il proprio mondo, e così facendo aprirsi per la prima volta a qualcuno. Oltre il lavoro, le abitudini, i doveri, oltre tutto ciò che lo ha sempre rassicurato.

Nello stesso momento in cui si apre al mondo dei vivi, con la speranza regalata da qualcosa di splendido che sta per accadere, John raccoglie la gratitudine di tutti coloro che il mondo ha respinto e lui accolto, in un passaggio di consegne tra vivi e morti in cui la solitudine dei primi viene accolta dall’abbraccio dei secondi.