Summer survivors (titolo originale Išgyventi vasarą, Lituania, 2018). Regia: Marija Kavtaradze. Interpreti principali: Indre Patkauskaite, Paulius Markevicius, Gelmine Glemzaite, Sarunas Zenkevicius
I road movie contengono in sé il germe del cambiamento. Se ci pensiamo un attimo, la maggior parte dei film in cui si accenna a un minimo scavo dei personaggi è un road movie: ciascuno inizia il suo percorso in un modo, poi accade qualcosa che lo invita a cambiare. Una frattura, un imprevisto, un trauma, anche una semplice uscita dalla propria zona di sicurezza. E durante il viaggio ci sono tanti momenti di vuoto. La frase di Hitchcock (adottata da molti altri registi, fino a Radiofreccia) secondo cui il cinema è come la vita, ma senza i tempi morti, non dev’essere stata il faro guida di Marija Kavtaradze; anzi, lungo il viaggio in auto da un ospedale psichiatrico nell’entroterra fino alla costa baltica, la regista lituana ha sparso, come la mano di un contadino che semina la sua terra, tanti attimi fatti di niente. E’ quello che vedono gli occhi dei viaggiatori: cartelloni pubblicitari, tralicci dell’alta tensione, pioggia sui vetri, vento nei capelli, teste appoggiate nel sonno sul passeggero accanto, file di ragazzi con lo zaino che raggiungono la spiaggia, soste ristoro in piccole aree di servizio. Un vuoto che dà senso e valore al piano che gli è accanto.
In un ospedale psichiatrico lituano un medico, senza ascoltare il parere dell’équipe, decide di inviare due pazienti da un collega che lavora in una struttura sulla costa. Li accompagnerà Indrè, una psicologa che vorrebbe dedicarsi alle ricerche sul biofeedback, insieme a un’infermiera che verrà dimenticata quasi subito in un’area di servizio. Tanto Indrè è interessata alla parte scientifica e sperimentale del disagio mentale, quanto poco le interessano le persone: infatti al minimo contrattempo con i due giovani pazienti telefona al suo mentore per chiedere come deve comportarsi con loro. Paulius, cui l’ospedale ha appiccicato l’etichetta di sindrome maniaco-depressiva con disturbo bipolare, appena salito in auto comincia a parlare dopo settimane di silenzio; Justè, l’altra paziente, una ragazza silenziosa con due genitori che premono per riaverla a casa e un recente tentativo di suicidio, è un’osservatrice silente e molto attenta a ciò che le accade attorno.

Il viaggio li porterà dapprima nella casa del fratello di Paulius, e poi fino alla struttura ospedaliera sulla costa, loro meta finale. Durante quel tempo e quello spazio cui nessuno di loro aveva pensato, e che non fornisce alcuna coordinata per orientarsi come accadeva durante il ricovero (orari, camici, ruoli, rituali) i tre ragazzi, sostanzialmente coetanei, inizieranno a conoscersi e a scoprire che le loro distanze sono spesso solo frutto di convenzioni socialmente condivise. Indrè, che accoglie di malavoglia questo incarico insolito, si deve confrontare con persone vive, inaspettate, poco inquadrabili e che la disorientano. Justè, con gli avambracci fasciati per i tagli che si è inferta, una ricrescita nera che si fa strada sui capelli biondi e spettinati, lascia intendere un mondo di vitalità e amore nascosto dietro a un atteggiamento solo in apparenza catatonico. E Paulius parla, parla sempre, indifferentemente con l’una e con l’altra, tira fuori tutto ciò che non ha voluto dire in ospedale dove il suo unico modo di esprimersi erano le mosse nelle partite a backgammon con il suo psichiatra.

Evidentemente l’abitacolo dell’auto, come in Drive my car, è un luogo protetto e sicuro, che difende dal mondo ma consente anche di tirare fuori ciò che si è davvero. Nel finale, una volta raggiunto il mare, per un attimo si ha l’impressione che i veri diversi siano la giovane psicologa e il suo tutor, lo psichiatra che è andato a trovarla: incapaci di raccontarsi, di esprimere le proprie emozioni, di togliersi la pelle corazzata e consunta di atteggiamenti consueti e convinzioni ormai radicate, cercano nello sguardo dell’altro quella spinta che possa convincerli a superare le convenzioni date dagli studi e dall’esperienza, ed aprirsi al mondo nello stesso modo con il quale invitano i loro pazienti ad abbandonare il proprio.
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