Questo docu-film parla di tre persone, tre visionari che lavorano per costruire nuovi modelli di raccolta e utilizzo dell’acqua.
Sustainable Nation (Isr, 2019). Regia: Micah Smith. Interpreti principali: Omer Guy, Brian Palla, Sivan Ya’ari, Eli Cohen, Clive Lipchin.
Un gesto quotidiano, un rubinetto lasciato aperto e l’acqua che scorre senza che nessuno la utilizzi. Quante volte ci accade?
Attaccata alla parete della mia classe delle elementari c’era una mappa politica di Europa e Asia. Esisteva ancora l’Unione Sovietica. In Asia c’erano alcune macchie azzurre, dei laghi immensi riportati con il nome di mare. Il Mare d’Aral (foto a sinistra) era uno dei quattro laghi più grandi del mondo, un’estensione pari a due volte il Belgio. Nella foto a destra, ciò che ne rimane oggi.

Guardando Sustainable Nation il pensiero è tornato a quella mappa e a quel mare interno così lontano. Terzani non aveva ancora scritto “Buonanotte signor Lenin” e non era dato sapere come funzionasse l’economia pianificata in URSS: i sovietici avevano imposto quote annuali di produzione di cotone alla repubblica satellite dell’Uzbekistan, e per garantire questo risultato tutte le acque necessarie all’irrigazione dei campi erano state convogliate verso sud, attraverso un piano colossale di opere pubbliche che però non teneva in alcun conto le ricadute sull’ecosistema della zona.

Quelle scelte portarono alla scomparsa del Mare d’Aral, ma anche oggi una gestione miope dell’acqua, il bene più prezioso al mondo, mette in difficoltà intere popolazioni.
Questo docu-film parla di tre persone, tre visionari che lavorano per costruire nuovi modelli di raccolta e utilizzo dell’acqua. Sono testimoni della possibilità concreta di modelli alternativi: provenendo da Israele, un Paese che da sempre ha dovuto fare i conti con la carenza d’acqua e la prossimità con il deserto, hanno trasformato un bisogno individuale in un motivo di crescita collettivo.

La pellicola racconta le loro storie e le strade che li hanno condotti in India, Africa, Stati Uniti a promuovere nuove idee per trovare, purificare, salvaguardare l’acqua. Le spinge un bisogno personale, l’idea di costruire progetti che siano in grado sia di salvaguardare la propria terra, sia di intervenire in Paesi di cui leggiamo distrattamente le storie su qualche trafiletto di giornale. Bambini africani che muoiono per aver bevuto acqua contaminata, donne che perdono la vita durante il parto perché l’ospedale non ha energia elettrica durante la notte, fiumi diventati fogne a cielo aperto (che in India chiamano “nala”) nei quali vengono convogliati gli scarichi delle abitazioni e delle industrie, dove gli animali si abbeverano e gli umani raccolgono l’acqua per le proprie necessità.
L’impressione che resta, al termine della proiezione, è la consapevolezza che le rivoluzioni partono dal basso e possono condurre ai risultati sognati solo se chi le porta avanti riesce a coinvolgere altre persone, fratelli non per passaporto o per classe sociale, ma per le idee che condividono.
Non esiste un bisogno collettivo o un vincolo giuridico sufficientemente forte da convincere le persone a non gettare i rifiuti nei fiumi o a non adottare comportamenti distruttivi per sé e per la comunità. Forse l’unica strada è costruire progetti alternativi e sostenibili, con due caratteristiche: che non incidano negativamente sul territorio, sostituendo un problema con un diverso problema; e che possano essere portati avanti in modo che chi propone la soluzione sia colui che favorisce autonomia di gestione del progetto nei confronti di chi ne trae vantaggio, eliminando ogni possibile relazione di dipendenza.
Certo così facendo viene meno la possibilità di un ritorno economico: un buon lavoro dovrebbe sempre essere ricompensato in modo dignitoso. Il vero guadagno non deriva dallo sfruttamento intensivo dell’idea ma dalla sua esportabilità, dalla condivisione del processo generativo che riesce a spostarsi da una zona all’altra, da una necessità a una diversa, da un ambiente dove l’acqua è in eccesso ma viene inquinata a uno dove l’acqua non c’è e deve essere trovata, irreggimentata e distribuita.
Ecco, l’idea che rimane alla fine del film, serrato nel ritmo e originale nelle trovate grafiche che introducono i singoli progetti e le persone che li promuovono, è questa:
far sì che ciascun progetto abbia la possibilità concreta di allontanarsi da chi lo ha promosso per essere preso in carico – come responsabilità e gestione – da chi ne usufruisce.
Questo legame spiega forse più di ogni altra motivazione perché migliaia di progetti avviati in quello che noi definiamo Terzo Mondo non risultano efficaci, e i finanziamenti si disperdono come l’acqua nel delta interno del fiume Niger. Senza però creare l’effetto virtuoso di generare la vita.
I progetti sono semplici e generati dalla profonda conoscenza della terra e dalla sapienza di chi la lavora: dalla creazione di piante capaci di drenare dalle acque le sostanza peggiori, come i metalli pesanti, per farne delle biomasse, alla costruzione di torri e cisterne all’esterno dei villaggi africani per raccogliere acqua pulita e distribuirle all’interno dei villaggi. Per chi desidera approfondire, sul sito del film (https://sustainablenation.com) è possibile trovare molte altre informazioni.
L’idealismo della vocazione iniziale viene “messo a terra” in un progetto che a sua volta viene contaminato con un pragmatismo che ne traccia la strada e ne indirizza la concreta ripetibilità in spazi e ambienti diversi. E’ la rivoluzione che indica la strada a chi ancora la sta cercando: come ha fatto Muhammad Yunus con il microcredito, un’idea di partenza in grado di camminare, nel tempo, con le proprie gambe.
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