The Cathedral (Usa, 2021). Regia: Ricky D’ambrose. Interpreti principali: Brian D’arcy James, Monica Barbaro, Geraldine Singer, Robert Levey Ii

Richard e Lydia si conoscono all’interno di un ascensore mentre sono in vacanza ai Caraibi, e dopo pochi mesi si sposano. Dal loro matrimonio nascerà Jesse, figlio unico amatissimo, che con la sua crescita scandirà i 20 anni di storia americana e familiare che il film racconta.

Lo fa per quadri, con inquadrature fisse e luce naturale, senza musica. Se ci fosse anche la camera a mano saremmo nei dintorni di Dogma 95 di Lars Von Trier. Una voce fuori campo accompagna con didascalie sonore gli accadimenti, spiegandoli laddove i segmenti di vita narrati non risultano facilmente contestualizzabili. Jesse è amorfo, si lascia andare a ciò che gli accade intorno senza ribellarsi; lo annota dentro di sé ma fatica a elaborarlo. Il ritmo del tempo che passa è scandito principalmente da cresime, diplomi, funerali e matrimoni (alla fine Richard ne collezionerà tre), momenti in cui celebrare traguardi e recitare ruoli predefiniti; e problemi economici, tanti: denaro e guadagno come pietra di paragone della vita propria e di quelle altrui.

A partire dal matrimonio che seguiamo fino al suo disfacimento, quello con Lydia, i soldi sono una presenza costante: alla fine del pranzo di nozze risultano insufficienti a regolare il conto, allora il suocero interviene per dare una mano. Da quel momento in poi i rapporti tra Richard e il padre della moglie inizieranno a deteriorarsi irrimediabilmente. Possono essere guadagnati con facilità se ci si butta nel mercato immobiliare quando è il momento giusto. Sono sempre più scarsi quando la tipografia di Richard inizia ad andare male per il passaggio dalla stampa in offset al digitale. Jesse traduce dal “dollarese” le frasi che gli rivolge il padre, quando dopo la separazione da Lydia passa con lui una giornata alla settimana. Non ricordiamo un gesto d’affetto, un abbraccio tra padre e figlio, uno sfogo, una domanda inopportuna.

Una relazione in punta di forchetta, quella forchetta non perfettamente pulita che con i suoi batteri aveva infettato il corpo dello zio facendolo morire a soli 38 anni prima che lui nascesse. Ma anche questa era una storia buona per gli altri, perché lo zio era morto per altri motivi, meno nobili evidentemente e quindi non raccontabili.

Ciò che resta negli occhi di Jesse sono i litigi tra parenti, sorelle che hanno smesso di parlarsi, famiglie che fanno finta di non conoscersi e si ritrovano solo ai funerali, e nemmeno lì riescono a sciogliere i nodi derivanti da screzi di cui non hanno più memoria. Ciò che resta sulla pellicola invece sono gli intermezzi della Storia americana degli anni dal 1987 al 2007, quando Jesse va al college e si chiude il film: tutte vicende di un Paese che non è il nostro, ma del quale sappiamo tutto a partire dei nomi iconici che riescono a darsi: l’uragano Katrina, Desert Storm, Enduring freedom, e poi i presidenti, dal loro pulpito della White House al saluto tributato con la bandiera sulla bara. E le pubblicità televisive e radiofoniche, i prodotti che invadono ogni casa, dai giochi per i bambini alle scarpe di moda, alle piscine, alle vacanze al caldo, alle auto.

Molto avere e poco essere. Jesse rimane incastrato in tutto questo.

I quadri fissi della cinepresa raccontano perfettamente il suo disagio silenzioso, il suo non essere. Solo un libro di Čechov, appoggiato sul tavolo accanto a una tazzina di caffè, richiama emozioni, vivacità, passioni. La vita è un perenne fluire, ma in questa pellicola resta bloccata nelle maglie sempre più strette di carriera e successo, rapporti di forza e denaro. E’ un film quadrato, di cui restano alla fine forse solo gli spigoli.